Il socialismo "irreale" del sognatore Dubcek

Nel 1988 l'ex leader cecoslovacco si mostrava fedele ai valori di "importanza universale"

Il socialismo "irreale" del sognatore Dubcek

Si era ancora nella morsa della Guerra Fredda e, nonostante i meglio informati sapessero che nel monolite Unione Sovietica ogni giorno affiorava una nuova crepa, in pochi ne avrebbero potuto prevedere l'imminente fragoroso schianto. Non se lo sarebbe aspettato Alexander Dubcek, l'uomo a cui aveva guardato con fiducia chiunque nutrisse slanci libertari a Est della Cortina di Ferro, quando, il 5 gennaio 1968, era stato eletto segretario del Partito Comunista di Cecoslovacchia. Il suo tentativo di svecchiare il partito e di rinnovare il Paese, sull'onda dei fermenti studenteschi che avevano scosso le coscienze dell'Occidente, sarebbe stato di breve durata, soffocato brutalmente dall'invasione militare delle forze del Patto di Varsavia, il 20 agosto.

La cosiddetta «Primavera di Praga» era stata effimera, ma aveva sparso i semi che avrebbero portato ai primi ripensamenti e alle prime, lente concessioni da parte dell'Unione Sovietica e, in ultima analisi, al crollo del muro di Berlino. Dopo essere stato deposto, Alexander Dubcek era finito nell'oblio, vilipeso, irriso, sfregiato nelle sue convinzioni più sincere da chi aveva visto in quel riformatore un pericolo letale per la stabilità dell'universo comunista.

E fu proprio in quella bolla di anonimato imposto da Mosca che, su l'Unità del 10 gennaio 1988, apparve una sensazionale intervista a quel vecchio di cui da un ventennio si erano quasi perse le tracce. A recarsi in Cecoslovacchia per realizzarla, in condizioni tecnicamente complicate, fu Renzo Foa, al tempo vicedirettore, uno dei primi giornalisti di quella testata a sposare una linea riformista e critica nei confronti del comunismo reale. I tempi erano cambiati: mentre la repressione sanguinosa della ribellione ungherese era stata accolta dal Pci come una scelta dovuta, inevitabile, il pugno di ferro usato sui ragazzi cecoslovacchi, non molto diversi dai coetanei occidentali che andavano in piazza o nei campus universitari per chiedere scelte condivise e maggiore equità, aveva squarciato la cortina del silenzio, creando una spaccatura insanabile.

L'Europa che non è stata. Intervista a Alexander Dubcek (Succedeoggi Libri, pagg. 119, euro 16) riporta integralmente la lunga chiacchierata tra Dubcek e Renzo Foa, arricchendosi della prefazione di Stefano Folli e della postfazione di Andrea Graziosi, oltre che di un'integrazione dello stesso Foa. La situazione è inizialmente paradossale: l'incontro si sarebbe dovuto svolgere a Bratislava e all'ultimo momento viene spostato a Praga, in quella Piazza San Venceslao in cui il giovane studente Jan Palach si era dato mortalmente fuoco nel 1969, per protesta contro l'ignavia del suo popolo di fronte ai soprusi sovietici. Dubcek risponde alle domande dapprima con un certo distacco, quasi con diffidenza, poi con progressivo trasporto. Una cautela più che comprensibile, considerata l'attenzione di cui era tuttora fatto oggetto dal regime, che continuava a vedere in lui un pericoloso sobillatore, un potenziale pericolo.

Buona parte dell'intervista verte sulle speranze nel nuovo corso sovietico e sull'apparente, quasi paradossale identità tra le rivendicazioni dei giovani cecoslovacchi della «Primavera di Praga» e le aperture e riforme proposte da Gorbaciov con la perestrojka e la glasnost. Dubcek, scomparso nel 1992, non farà in tempo ad assistere allo sgretolamento totale di quell'universo che lui stesso, un socialista convinto, aveva contribuito a creare (vivendo per molti anni con la famiglia in Unione Sovietica), ma le sue parole lasciano intendere che, al di là del timore di ulteriori repressioni nei suoi confronti, i tempi sono maturi. Dubcek è convinto che «da ex critici del passato borghese non dobbiamo trasformarci in apologeti di tutto ciò a cui viene apposta un'etichetta socialista». L'orgoglio con cui Dubcek rivendica la validità delle proprie scelte e la speranza con cui guarda a Gorbaciov, che considera un interlocutore credibile, hanno un che di commovente. Anche se «non si può fare un raffronto meccanico tra Cecoslovacchia e Urss, tra il nostro '68 e la Perestrojka sovietica». Le sue parole non trasudano alcuno spirito di rivalsa e il vecchio leader non manca di sottolineare quanto il messaggio socialista resti per lui un faro di positività.

«Socialismo, pace, eguaglianza... A questi valori attribuisco una straordinaria importanza universale». Ma, a suo dire, «è stato determinante l'instaurarsi di un clima politico che scalza la colonna portante della forma-partito: la democrazia interna... Così l'elaborazione rimastica vecchi dogmi e assiomi... Sono di casa conformismo, settarismo, ordini dall'alto, oligarchia... concentrazione del potere».

Alla domanda se sarebbe stato possibile evitare la repressione dell'agosto del 1968, Dubcek scuote il capo e risponde: «Oggi sappiamo che non lo

sarebbe stato, che non era nel potere di noi cecoslovacchi... non ho nulla di sostanziale da rimproverarmi... la nostra politica vinse nel popolo cecoslovacco». Era avvenuto tutto in primavera, la stagione della speranza.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica