La sorpresa di Penelope

Incastrato tra gli scaffali della solita libreria, e incurante degli altri clienti che per passare ogni volta dovevano urtarlo, un circa sessantenne insisteva nella sua lettura. Si carezzava ogni tanto i capelli arruffati, quasi a volerseli pettinare sfiorandoli, e leggeva, delicato, ma in gran furia. Lo stipendio di professore di Liceo, con moglie e madre a carico, non concedeva al suo bilancio l’acquisto di tutti i libri che avrebbe voluto. E perciò anche quella vigilia di Natale si dedicava compunto a leggere in libreria, malgrado il suo sacchetto della lavanderia pendente. Il professor Avvitati era riuscito a ritrovare subito in quel libro, d’un ormai desueto filologo tedesco, il segno tra le pagine proprio dove l’ultima volta l’aveva lasciato, infilandoci il biglietto del tram. E se ne stava così in uno stato che agli altri pareva di patologica ipnosi, a leggersi il perché gli atti degli eroi omerici fossero fatti dagli dei, e vissuti quindi come nella replica di un sogno. Intanto gli veniva però anche di pensare alla sua propria di vita, dolente di viltà. Ne deduceva che neppure lui si sentiva di aver mai agito. Ma non erano stati gli dei ad agire per lui. E poi altro che sogno, la sua non eroica vita lo opprimeva persino in quella pausa di piccolo piacere che si stava concedendo. La timidezza era con gli anni evoluta in vergogna. E adesso anche questa: non poter pagare a sua madre neppure una badante. E dover perciò portarsi a vivere con lui un caso di demenza senile, che avrebbe complicato la già imbarazzante mancanza di spazi. Viveva infatti in un bilocale, senza figli ma ingombro di libri; con la moglie che per via di un’artrosi all’anca camminava già male. Il trasloco della vecchia madre significava due scaffali di libri in meno. Proprio quelli che aveva raccolto per anni col pretesto di scrivere un libro sulle donne di Omero. Ma altro che Elena, Nausicaa, Penelope, gli erano toccati trent’anni di colleghe depresse, professoresse.
Il decadere all’indegnità del mestiere d'insegnante avevano ritmato la sua carriera. Fino alla pensione. Proprio per non pensarci insistette a leggere ancora più fanaticamente. Cosicché soltanto dopo che la commessa aveva cominciato a urlare gli accadde di sentirla. Già si iniziavano a girare gli altri clienti. Costei era molto giovane, e gli era parsa persino vestita a modo, riservata e quindi graziosa. Però adesso era lì a inveirgli contro. «E no, adesso basta. Non è una sala di lettura, e per giunta alla vigilia di Natale con tutti i clienti che girano...Non possono neanche passare e nemmeno io... Perché lui deve leggere! Ma se li compri i libri... noi li vendiamo». Restò a sentire questo sfogo, che gli parve subito peraltro molto sensato. Invaso dalla vergogna divenne rosso, chiese scusa. E la sua non fu una dignitosa uscita, ma una concitata, goffa fuga. A una certa età l’evidenza delle nostre miserie non fa neppure più piangere. Invece si rimpiccioliva tutto, col viso perplesso nello sforzo di minimizzare che gli stava riuscendo ben poco, mentre saliva le scale di casa. Girò la chiave nella serratura con frenesia, ancora tremante per via dell’umiliazione. Ed entrò ma non vide più le sue librerie, che pure c’erano ancora, prima che lui uscisse. Al loro posto invece la madre coi capelli bianchi ed elettrici, su una poltrona letto, e il suo solito sguardo fuori di sé.
Protestò con la moglie, la quale poveretta irritata gli replicò: «Dove la mettevamo altrimenti tua madre? I libri poi li ho dovuti mettere io, uno per uno di sotto... mentre eri a spasso... e a me oggi duole pure l’anca». «Come di sotto - replico lui - e dove?». Turbato dalla profanazione, l’infilò giù per la tromba delle scale. Solo molto in fondo, vide i suoi libri: appoggiati a una parete ammuffita, là al buio dove chiunque poteva prenderli o mancargli di rispetto. Tornò su in protesta. Ma non c’era libero in casa neppure un metro quadro sopra l’armadio. E la moglie non evitò di evocare il pensiero per lui più sgradevole. «Potevi guadagnare di più, invece... , dovevi pensarci prima». Era la replica consueta, e che più l’offendeva. Del resto si disse d’esserselo meritato: sua moglie era un’incolta. Come aveva potuto sposarla? Lei, una volta commessa nell’aria condizionata, adesso per giunta ingrassata, e plebea. «Che Natale», si disse sedendo sul divano scucito e rovinato dal gatto anche con le sue puzzolenze. Accanto la moglie intanto preparava, scontenta, la tavola. Si impose di dirsi che era meglio non pensarci; e poi doveva cambiarsi per la cena. Ma ennesima disgrazia, si accorse: il suo vestito pulito appena ritirato dalla lavanderia l’aveva nella sua disonorevole fuga dimenticato nella libreria. Dunque neppure la possibilità di mettersi la sua giacca e i pantaloni puliti a Natale: una sciagura che completava le altre di quel giorno.
E avvenne pertanto che il professor Avvitati si avvicinò alla finestra, anzi fu avvicinato ad essa. E non dalle divinità della filologia tedesca, ma da un disgusto della vita e di sé, ormai soffocante. Neppure gli spifferi d’aria, che filtravano dall’infisso decrepito lo fecero tornare in sé... Pensava a quale vecchiaia l’attendeva. Aprì un’anta, quindi l'altra. Si trovò a chiedersi se non era il caso di buttarsi di sotto. E tanto si sentiva umiliato, che il gettarsi gli parve anzi un gesto normale... Si sporse, poi avvicinò il divano alla finestra aperta, ci montò non agilmente sopra con le scarpe, salì sul davanzale. E dal sesto piano guardò di sotto, in strana posa. I reumatismi gli avevano fatto inclinare il collo storto, a guardare in alto, sospeso prima di buttarsi. Meglio nessuna vecchiaia. Così si replicava con sguardo fanatico, quando però sentì la frase che meno s’attendeva: «ei men de gheràs ghe teoì teléousin àreion... ». Era la frase serena che Penelope dice a Odisseo prima di abbracciarlo, e che significa: «Se almeno la vecchiaia ti faranno migliore gli dei». E vide che era sua madre a ripeterla, precisa e inattesa. Come non fosse più inebetita, se ne stava invece calma lì a guardarlo. Per la sorpresa il professor Avvitati quasi non cadde davvero di sotto. Ma volle subito capire meglio. E mormorò: «Ma come fai, tu... e proprio Penelope?». Al che la madre che palesemente neppure si ricordava il suo nome tanto la demenza senile l’aveva provata, rispose con un’altra frase in greco, e sempre d’Omero, quella che dice: «Un animo così valoroso ebbe Penelope la nobile figlia di Icario». E via di seguito completò questa frase del XXIV libro dell’Odissea.
Il povero Avvitati decise di scendere dalla soglia della finestra, proprio mentre arrivava sua moglie, che non l’aveva visto salire sul davanzale e alla quale le parole della madre erano parse un farfuglìo insensato. Subito lo sgridò perché aveva lasciato aperta la finestra: «Ma vuoi farci morire tutti». Avvitati sentì la comicità involontaria di quella frase. La vecchia era tornata del resto a tacere, e al suo stato consueto. E il nostro si convinse pertanto d’aver patito un’allucinazione, a cui doveva però una sorpresa così intensa da averlo distratto, ed evitato una follia. Perché l'anima umana è davvero strana, e a mutarla d’umore meglio dei fatti sono le sorprese, tanto più in una vita che n’aveva avute ben poche, come la sua. Si sedette e trascorse il pranzo meditante, presto ripreso però dal dubbio. Allora accadde la seconda stravaganza di quella strana vigilia. Sua moglie stava arrotolando il filo che legava il resto dello zampone, quando nell’appartamento davanti al loro, iniziò un frastuono prima, e poi il rumore di una musica. Al che sua moglie iniziò a singhiozzare, e piangere inconsolabile. Lui da prima pensò avesse visto quel suo intento suicida così stranamente abortito. Si scusò. Addirittura, fuori luogo, iniziò a parlare di Penelope, e si rese ridicolo chiedendo cosa mai avesse letto sua madre. Ma la moglie che invece nulla aveva visto, pianse ancora più forte talmente disperata da fare dopo poco commuovere pure lui. Smise di parlare come un pazzo, e cercò di distinguere almeno le parole che lei inghiottiva tra i singhiozzi: «La cantava lui, Lorenzo». Avvitati chiese «Ma Lorenzo chi?». «Lui... il garzone di cui prima di conoscerti m’ero innamorata, senza mai però averglielo detto. Infatti morì un mese prima che ti conoscessi».
Il professore le girò allora il volto, tutto bagnato, ed ebbe la sua seconda meraviglia. La vide pure lei diversa, trasmutata. Come se una luce interna l’avesse di un tratto ringiovanita. Difficile dire quanto durò in quell’estasi. Ma la vide come l’aveva vista in un negozietto la prima volta: incolta, buona, soprattutto bellissima. Aveva il corpo reso più morbido dalle pieghe del grembiale, che un po’ le stringeva. La vide talmente bella, così innamorata e timida; pervasa da quel velo di melanconia che la faceva parere così saggia e fiera. Si risentì fuori dal tempo nel giorno in cui s’era innamorato di lei. Lentamente la fece alzare in piedi. Vide di non essersi accorto che era andata dopo anni dal parrucchiere. Aveva i capelli raccolti, come una volta, indossava un golf di allora. Ma la madre nel frattempo s’era alzata. E il professore a quel punto non si sarebbe sorpreso, considerate le stranezze di quella sera di sentirle ripetere a quel punto la frase che Omero dedica appunto a Elena, la più bella di tutte, e perciò sventurata. Ma non accadde. Invece era suonato intanto il campanello della porta di casa, e la madre poverina s’era affacciata a quella sbagliata. Avvitati s’asciugò una lacrima, riaggiustò la cravatta, e mise la mano ben ferma a coprire l’enorme macchia che lordava i suoi pantaloni. Aprì. E chi vide? Era la signorina del negozio dei libri che gli chiedeva scusa: «Vorrei donarle questo libro», disse. Era lo stesso, che gli aveva tolto di mano poche ore prima, innervosita. «Lo accetti, sono riuscita a rintracciarla attraverso la lavanderia». E gli mise in mano pure la sacca coi pantaloni ben puliti, che lui nella sua fuga aveva dimenticato.

Era giovane, un che di ridente le sgorgava dentro come il tintinnio di una fresca fontana. Pareva Nausicaa. E fu perciò che il professore, in quella strana vigilia di Natale, dedusse che il suo libro sulle donne di Omero glielo aveva scritto in un solo giorno la vita.

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