Tu vuo' fa' l'americano. Diciamo che ci provano un po' tutti i registi. Hollywood, amata/odiata, è sempre e comunque la Mecca del cinema. Ma pochi ci riescono. Il nostro Paolo Sorrentino ha tentato il colpo grosso nel 2011 con This Must Be The Place e una star come Sean Penn ma alla fine è stato premiato dagli americani con l'Oscar «solo» per l'italico La grande bellezza. Gli unici che recentemente sono riusciti a crearsi una reputazione nell'industria statunitense sono stati Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome ha vinto l'Oscar per la migliore sceneggiatura non originale) e Gabriele Muccino con il dittico con Will Smith formato da La ricerca della felicità e Sette anime. Ma non va tanto meglio per i colleghi della vecchia Europa, il continente che peraltro storicamente ha dato di più al cinema americano (Billy Wilder, Fritz Lang, Ernst Lubitsch, Alfred Hitchcock).
Ora, muro o non muro al confine, ci pensa il Sud America a sfondare qualsiasi barriera. Grazie a quelli che vengono chiamati «los tres amigos» anche perché amici lo sono proprio: Guillermo del Toro, Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu. I tre messicani che negli ultimi cinque anni con i loro film, rispettivamente, La forma dell'acqua - The Shape of Water, Gravity, Birdman e The Revenant, hanno portato a casa 25 statuette tra cui quella prestigiosa per la miglior regia. Un trionfo insuperabile che noi possiamo solo stare a guardare come fa la Mostra del cinema di Venezia che con lungimiranza ha presentato i film dei tre registi (eccetto The Revenant).
Ma ora forse è arrivato il momento di un altro cinema latinoamericano, quello effervescente cileno, a conquistare Hollywood. È di pochi giorni fa l'Oscar per il miglior film in lingua straniera assegnato a Una donna fantastica di Sebastián Lelio. Che non ha aspettato questo ambito riconoscimento per tentare la carta hollywoodiana dal momento che ha già pronti due film: Disobedience, in uscita negli Stati Uniti il 27 aprile, con le due Rachel, Weisz e McAdams, che interpretano due donne ebree ortodosse innamorate e il remake del suo stesso Gloria, con Julianne Moore al posto della cilena Paulina Garcia che nel 2013 ha vinto l'Orso d'argento come migliore attrice al Festival di Berlino.
Ma anche dietro al successo di Sebastián Lelio c'è la storia di un'amicizia, un po' come quella dei «tres amigos» che, all'inizio delle loro carriere, hanno anche lavorato insieme per la serie tv La hora marcada, una specie di The Twilight Zone alla messicana. Si tratta dei fratelli Pablo e Juan de Dios Larraín che, come produttori con Fabula, hanno contribuito a realizzare gli ultimi film di Lelio. Ma Pablo Larraín è anche un regista tra i più talentuosi del cinema mondiale che, con i suoi primi tre film Tony Manero, Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno, ha ridefinito la storia patria attraverso una trilogia molto dura sulla dittatura militare cilena mentre si è già confrontato con una serie tv che guarda con originalità ai modelli statunitensi, Profugos, due stagioni prodotte dalla costola latinoamericana di Hbo. Il suo ultimo film, candidato a tre Oscar, è stato Jackie con Natalie Portman che interpreta Jacqueline Kennedy nei giorni successivi all'assassinio del marito presidente. A breve girerà invece The True American, ispirato all'omonimo libro di Anand Giridharadas, con Mark Ruffalo e con Amy Adams in trattative per la protagonista. Il film, che tra i produttori vede anche la regista Kathryn Bigelow (ma non è escluso un interessamento di Amazon), racconterà la storia di Rais Bhuiyan, l'ex ufficiale dell'aeronautica militare del Bangladesh trasferitosi negli Usa che nel settembre del 2001 venne attaccato da Mark Anthony Stroman, «lo sterminatore di arabi», durante la sua folle missione per vendicare gli attentati dell'11 settembre. L'ufficiale sopravvisse allo sparo in volto e guidò una campagna per salvare il suo aggressore dalla pena di morte che fu comunque eseguita nel 2011.
Un tema anche politico che rientra perfettamente nella filmografia di Larraín che si discosta sia da quella di Lelio sia da quella dei tre messicani con Del Toro affezionato cantore dei «mostri» e ai racconti fiabeschi un po' gotici, Iñárritu tutto concentrato sui drammi e Cuarón che lavora a un cinema che mischia i generi non disdegnando anche le grandi produzioni come Harry Potter e il prigioniero di Azkabanan che ha diretto nel 2004.
Ma, al di là della loro eterogeneità, queste cinque storie di registi ci raccontano di una matrice comune nell'amicizia, nella condivisione di intenti, nel senso di appartenenza a una patria comune. Tre aspetti impossibili da trovare nei registi del Vecchio Continente.
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