Nell'Ultimo processo (Mondadori, pagg. 428, euro 22), Scott Turow torna all'origine, ovvero a Sandy Stern, l'avvocato difensore che appare in Presunto innocente, il primo della lunga serie di bestseller dello scrittore/avvocato di Chicago. E Sandy Stern torna per uno show inaspettato, visto che ha 85 anni. Ma a essere nei guai è il suo amico Kiril Pafko, guru della lotta al cancro, Nobel per la medicina, scopritore di un farmaco «miracoloso» contro i tumori e ora accusato di truffa, insider trading e omicidio, proprio per via di quella medicina portentosa (che ha salvato la vita allo stesso Stern). «Il romanzo è cominciato con una semplice domanda: visto che Stern aveva una grave forma di cancro nel 2010, come era possibile che fosse ancora vivo? La risposta era che avesse un rapporto personale con chi l'aveva curato» dice Turow, in collegamento dalla Florida con un gruppo di giornalisti. Un rapporto di amicizia che è «centrale rispetto alla questione cruciale del romanzo: come si può misurare la vita di un'altra persona?».
Ma che cosa succede se il dovere verso il cliente si scontra con il dovere nei confronti della legge?
«È il conflitto perenne nella vita di ogni avvocato, poiché si parla sempre del dovere verso il proprio cliente, ma esiste un sistema etico, cui l'avvocato aderisce; a me piace pensare nei termini del Just saving principle di John Rawls: cercare sempre di salvare il sistema, mentre assolvi al tuo compito».
Esiste un limite?
«Sì, c'è un limite a ciò che si può fare per il cliente. Per esempio Pafko vuole testimoniare, ma Stern sa che è una pessima idea, perché Pafko non direbbe la verità. In generale, il dovere verso il sistema è un dovere verso la verità, e quello verso il cliente è... presentare i fatti nel modo migliore possibile per agevolarlo, il che può tradursi in una distorsione della verità».
Come fa a mantenere Stern così vicino al lettore dopo tanti anni?
«Dopo due anni come procuratore federale a Chicago mi chiamò la mia agente, di cui avevo molto timore, le spiegai la trama del libro che stavo scrivendo e lei disse: Ma è un caso da tribunale. Era vero, ma mi mancava la figura del difensore. C'era un amico dei miei genitori, un uomo molto beneducato, che da vedere non era niente di che, basso, ciocciottello, pelato, con un residuo di accento spagnolo, eppure quando iniziava a parlare rimanevi sopraffatto dal suo fascino, dalla sua intelligenza e dalla sua empatia. Lavorava nel mondo della finanza, ma si impose alla mia immaginazione perché era diverso dal solito avvocato difensore, non sembrava una stella del foro...».
Come ha influenzato i suoi romanzi il fatto di essere avvocato?
«Sono andato in pensione nell'agosto scorso, ma mi considero da sempre un avvocato. E, da avvocato, condivido alcune delle idee di Stern sulla legge e, in particolare, il fatto di avere un senso più maturo di che cosa sia la giustizia e di accettare che essa non sia un semplice risultato bensì un insieme di risultati, supportati dalla ragione».
Non c'è un esito netto?
«I casi non sono quasi mai puri.
Da giovane procuratore pieno di ideali credevo che un solo risultato fosse possibile, cioè che il cattivo finisse in prigione; oggi, dopo tanti anni, capisco una giuria che dica non credo sia colpevole o forse possiamo lasciarlo andare. Ho imparato a pensare che anche questo possa essere un risultato giusto».
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