Beatrice Gallori, creazioni sulla «biosfera» e dintorni

Agostino Bonalumi spiegava la tecnica dell'estroflessione con parole semplici: la superficie della tela «è spinta verso l'esterno, o ritratta verso l'interno, facendo sorgere il pensiero di uno spazio dietro l'opera»; in questo senso, sintetizzava al massimo grado anche il concetto base dello Spazialismo, il manifesto che lo accomunava ai sodali Fontana e Castellani, l'idea cioè che si potesse andare oltre la più scontata bidimensionalità, aggiungendo alla flatness del quadro le dimensioni del tempo e, appunto, dello spazio. Un pensiero su cui indaga da anni anche Beatrice Gallori impegnata dal 19 settembre con la mostra «BIOsphere» (Museo della Pittura Murale, piazza San Domenico, Prato) dove saranno presentati i suoi recenti lavori frutto, nel medesimo tempo, di una lunga ricerca pittorica e di una esplorazione più concettuale sulla materia nella sua accezione organica. Da una parte, la Gallori, mostra i risultati di un'indagine macroscopica sulla totalità degli organismi viventi che occupano la biosfera; dall'altra, piega verso la visione più microscopica, quasi cellulare, della vita: cioè su ciò che la crea, la trasforma e a volte la distrugge.

Non a caso le sue «bolle», quasi «mattoni» primordiali, sembra vogliano suggerirci - nota Valerio Dehò - una spiegazione prettamente biologica e meccanicista dell'universo, che acquista però forme e anche significati diversi (più finalistici) a secondo delle tecniche usate dall'artista e dal grado di vicinanza all'esperimento: polimeri, plexiglass, tele che, nel rigore del monocromo (bianco, rosso, nero, blu), sono la base, il recinto dentro cui cresce e si evolve, spesso tracimando fuori dai bordi, la materia ancora inorganica sul punto, però, di farsi in modo divino vita.

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