Thomas Bernhard su una macchina sportiva, «un gelido giorno d'inverno», che guida in modo spericolato, «a una velocità mai raggiunta da altri letterati». Il profilo letale, il ghigno, le lastre di ghiaccio, splendide come promesse, il desiderio di castrare la morte per eccesso di seduzione. È il 1977 e Thomas Bernhard si dirige, a cena, «in una trattoria poco invitante, in un angolo sperduto dalle parti del lago Traunsee», nell'Alta Austria. L'amico, al fianco, sul sedile, un discepolo, si chiama Peter Hamm, ha poco meno di quarant'anni, è un critico acuto, un poeta: ha conosciuto Paul Celan a Parigi, vanta una corrispondenza con Nelly Sachs, ha intervistato, per la televisione, Ingeborg Bachmann, Heinrich Böll, Peter Handke. Da ragazzo, è rimasto ustionato dalle poesie di Bernhard, raccolte in un libro remoto, raro, sanguinario, Sulla terra e all'inferno (tornato in libreria, quest'anno, per Crocetti). In versi, in formule scabre, lapidarie, Bernhard recensiva i temi cardinali: la disperazione, il dialogo con i morti, il nero occhio del caso. Aveva venticinque anni, Bernhard, e si credeva - non a torto - l'erede di Georg Trakl. Quella sera, molti anni più tardi, Peter Hamm aveva fatto la mossa giusta, giungendo dallo scrittore «con un sostegno femminile». Bernhard ne fu felice, fermentava nel vizio, pigiò sull'acceleratore: il romanziere di Perturbamento che romba, velocissimo, tra i recessi dell'Austria, con gli amici, per andare a mangiare. Caustica metafora dello sposalizio tra amore e morte, provvidenza e caos. «Mi piace vivere dove incontro l'ostilità maggiore», avrebbe detto, più tardi, Bernhard.
Cattivo intrattenitore (nel 1989 Guanda ha raccolto le sue Conversazioni, plumbee, grottesche, monotone), quella sera, vuoi per il vino («ci dedicammo soprattutto al vino», ricorda Hamm), per l'inverno che imperava, per la serafica presenza femminile, Bernhard diede il meglio di sé. Il pretesto dell'incontro era un'intervista, o meglio, Una conversazione notturna (Portatori d'acqua, pagg.94, euro 11), che avrebbe dovuto introdurre un volume di saggi edito da Suhrkamp. Bernhard, in piena euforia, parlò della sua idea di giustizia («I tribunali non conoscono ostacoli. Quando un uomo arriva in tribunale, e per tutto il tempo che vi rimane, il tribunale prova un piacere enorme ad annichilire quell'uomo o la sua personalità»), dell'odio come forma di amore («Il mondo è fatto di specchi. Chiunque scriva di odio, o di meschinità, al contempo scrive dell'amore, è logico»), del compito della letteratura, che esiste per meditare l'irrimediabile, e della carneficina che deve accadere a teatro: «L'ideale sarebbe che invece di far calare il sipario fosse possibile strappare via tutto ciò che si vede come una tela da cornice, buttarlo via e farlo sparire dalla vista. Ma una tale freddezza e una tale brutalità non sono possibili, perché non si possono strappare e buttare via le persone che interpretano quei pezzi di carne... se fosse possibile probabilmente lo farei, perché in loro non vedo degli esseri umani».
Allineò i paladini del suo monastico pantheon, Bernhard: su tutti, Thomas Wolfe, «il primo ad affascinarmi davvero», vertiginoso romanziere americano, specie di Minotauro della letteratura, «sulla carta era un tornado», ovviamente disperso, pressoché scomparso dalle librerie italiane; poi Pascal e Montaigne, e poco altro, «i libri mi opprimono». Soprattutto, Bernhard si espose in confidenze allora ignote: raccontò il lavoro in un negozio di alimentari, la fatica, la malattia, «avevo una pleurite umida», che lo consegna, diciottenne, al delirio ospedaliero. «Mi ritrovai in una camerata con venticinque letti tutti occupati da anziani che morivano uno dopo l'altro, in continuazione. Una cosa terribile. Eppure, io ero addirittura contento di stare lì». Il ragazzo rischia di morire - «mi diedero persino l'estrema unzione» - ma è il nonno, ricoverato nello stesso ospedale, a passare negli altri mondi. L'origine della scrittura, per Bernhard, è lì: «un buco nei polmoni», la morte del nonno, il male, che lo scarnifica, «avevo perso venti chili in due settimane... il giorno del mio compleanno i miei fratelli non mi hanno riconosciuto». Perforato nella carne, prediletto al tormento, tradotto in altro, in uno sconosciuto, Bernhard scrive: non per radiazione di pietà o per irradiare dolore; scava l'osso ultimo, esaspera ciò che resta della vita. Scrive per polverizzare.
Naturalmente, la «conversazione notturna» - iniziata «verso mezzanotte» - non verrà mai pubblicata. Quando Bernhard la riceve, sbobinata, editata per la pubblicazione, è a Sintra, in Portogallo. Risponde all'amico con una lettera che porta l'intestazione dell'albergo, sontuoso, in cui è accolto. Le parole sono metalliche e definitive: «L'intero testo del nostro unico (ultimo?) esperimento risulta del tutto inservibile e non se ne deve utilizzare nemmeno una riga. La sola idea di un libro sul mio lavoro mi fa quasi male; ne può venir fuori soltanto l'ennesima aberrazione... Da anni non leggo che chiacchiere nauseabonde e non posso difendermi da queste fandonie vomitevoli». Libro e intervista, dunque, saranno abolite e obliate. Molti anni dopo - cioè, dieci anni fa - Peter Hamm, sia lode a lui, decide, «benché con sentimenti contrastanti», di pubblicare la chiacchierata, di oscura bellezza.
Resta, magnifico, l'ultimo fotogramma: Bernhard che «alle soglie dell'alba» spala la neve che ha accerchiato la casa, «ci sgombrò il cammino affinché potessimo ripartire per Monaco». Lo scrittore che lotta con la neve, tutto quel bianco: come se prendesse a morsi il candore.
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