Era nell'aria da settimane, ma la conferma è arrivata ieri. La Biennale di Architettura slitta di un anno ed è stata riprogrammata a partire dal 22 maggio 2021. Per conseguenza anche la 59ma Esposizione Internazionale d'Arte scivola di un anno e si vedrà dal 23 aprile 2022.
Esordio amaro per il neopresidente Roberto Cicutto, appena insediatosi dopo il lungo regno di Paolo Baratta. Proprio nel giorno in cui timidamente riapre almeno una parte delle mostre e dei musei italiani, la Biennale si arrende al Covid-19: un conto è riorganizzare flussi e collezioni, un'altra convogliare in Laguna artisti e architetti di mezzo mondo. Restano al momento confermati a Venezia cinema, teatro e danza, ma non si riesce a capire se è solo un prendere tempo o la concreta speranza che film, spettacoli e balletti, magari con le sale mezze vuote, si potranno vedere.
Conflitti mondiali a parte, l'ultimo rinvio della Biennale data inizio anni '90: invece che nel '92, la mostra internazionale d'arte fu riprogrammata l'anno dopo per far coincidere l'edizione 1995 con il centenario (ma si può anche supporre che il '92 fosse stato un anno troppo difficile, tra le strage di mafia, la paralisi istituzionale e lo scoppio di Tangentopoli, per parlare d'arte).
Dispiace molto per l'architettura, che cadeva nel quarantennale della prima mostra: il 1980, infatti, fu il primo segnale della ripartenza di un Paese segnato per un decennio dal terrorismo comunista e dallo stragismo. Diretta da Paolo Portoghesi, fu la Biennale del postmoderno. Oggi, affidata all'architetto libanese Hashim Sarkis, sarebbe stata un'altra rassegna terzomondista e globale. Per la Biennale Arte, invece, affidata a Cecilia Alemani, italiana con stabili radici a New York, non si sapeva ancora nulla, pur intuendo un'analoga prospettiva internazionale.
Limiti, paure, paranoie collettive, reazioni tardive dei governi ci conducono a un'estate 2020 vuota e triste, dove qualsiasi espressione sociale sarà ridotta: no a mostre, concerti, calcio (speriamo in tv), fiere, festival. Sarà dura non tanto farsene una ragione, quanto riprendere le abitudini di prima, consapevoli che indietro non si torna mai.
Così, mentre bar e negozi si stanno abituando a ricevere un cliente alla volta, il mondo della cultura s'interroga su come potrà sopravvivere il settore nei prossimi mesi, che peraltro si lega al turismo. Con questo terrorismo psicologico già sarà dura convincere il benintenzionato che non corre rischi a visitare un museo (e comunque meno rispetto alle code ai supermercati). C'è chi festeggia per la «fine» delle grandi mostre, se ne facevano troppe e di scarsa qualità, chi detesta i prodotti Blockbuster (tra i pochi a ottenere buoni riscontri in cassa) e auspica mostre più piccole; più rigore e filologia al posto dell'effetto facile e del nome roboante.
Se davvero questa fosse l'occasione per dar voce all'arte italiana, in particolare quella degli ultimi trent'anni a lungo sacrificata sull'altare dell'Arte Povera e della globalizzazione, non tutti i mali verrebbero per nuocere. Il patrimonio c'è, provare a esporlo e valorizzarlo è un obbligo ineludibile.
È necessario però essere consapevoli che lo sforzo economico pubblico dovrà essere moltiplicato per tenere in piedi la baracca. E che le mostre e le chiacchiere virtuali non bastano più: c'è bisogno di realtà perché il sito di un museo, per quanto ben fatto, non potrà mai sostituire l'esperienza.
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