Ciò che si trova solo in Baudelaire (Adelphi, pagg. 137, euro 14) di Roberto Calasso è per molti versi un saldare, alla sua maniera, intellettuale, più che meramente autobiografica, i conti con sé stesso. Scomparso da poco, Calasso ha avuto un'esistenza pubblica felice, usando questo aggettivo come sinonimo di successo, rispettabilità, considerazione. Ha fondato una casa editrice che si è imposta come la più elegante e la più curiosamente intelligente fra quelle italiane, ha scritto una ventina di saggi che hanno avuto come filo rosso il mito e il sacro e il loro perdersi e/o ritrovarsi a petto del mondo moderno che li spodestava, si è ritagliato uno spazio fra i maîtres à penser italiani tanto più evidente quanto più appartata era la sua maniera di farvi parte. Non firmava appelli, Calasso, non partecipava a talk show, non interveniva su questo o su quello, il tutto e il niente che rende così vana e vacua la «classe dei colti» della nostra penisola, ovvero quel che è il prodotto ultimo di una civiltà letteraria dove la scarsa penetrazione all'estero della nostra lingua, l'assenza plurisecolare di una «società pubblica» degna di questo nome (se ne rammaricava già Leopardi...), la necessità di trovare fonti di sostentamento mercenarie - il giornalismo nelle sue forme più varie, la politica come referente, strumento di reddito e strumento di potere - hanno concorso a disegnare il ritratto dell'intellettuale italiano perennemente con il cappello in mano per l'obolo di turno. Le eccezioni, si sa, confermano la regola.
A tutto questo Calasso era come miracolosamente scampato, un po' per tradizione familiare e per l'essere incappato fin da giovane nei maestri giusti, un po' per le sue indubbie capacità di imprenditore culturale, in grado di costruire un catalogo editoriale dove qualità non facesse rima con invendibilità, molto per il non essere un uomo del suo tempo, il che lo metteva al riparo da tutte le lusinghe che la modernità, o, se si vuole, la post-modernità, porta con sé, in primis l'apparire al posto dell'essere.
Non essendo un reazionario, ostile e chiuso al mondo nella sua torre più o meno d'avorio, la «ferita della modernità» restava però per Calasso una ferita aperta, aggravata da una sacralità della scrittura e dello scrittore che gli era propria, del tutto incompatibile con il mondo moderno. Si situa qui la prima lezione di Baudelaire: «Il ciclo dello scrittore come capro espiatorio si era aperto con Hölderlin; culminava con Baudelaire-Poe e si sarebbe chiuso con Artaud. Varcato lo spartiacque della seconda metà del secolo ventesimo, la densità dell'invenzione letteraria si assottiglia e l'epoca sembra dedicarsi ad assorbire le energie e le scosse sprigionate dai decenni precedenti. Ma soprattutto: la messinscena della società che sacrifica se stessa comincia a svelarsi nella sua insana meschinità. Come irreversibile era stato il distacco dal sacrificio ed era diventata, nel maturare dei tempi, inaccettabile l'idea di sgozzare un animale per gesto di devozione a un dio, altrettanto - anzi, molto di più - ripugnante dovrebbe finire per apparire l'idea di lasciar frantumare la propria vita dalle mandibole della società». In sostanza, quella sacralità si ritrovava come spogliata e insieme liberata del suo stesso carattere e non a caso Calasso doveva constatare che «gli ultimi maledetti non sono più gli scrittori ma artisti del rock o creature simili a concrezioni pubblicitarie»... Allo scrittore, nota ancora Calasso «spetterebbe ora una nuova strategia, che non viene per lo più percepita».
S'inserisce qui la seconda lezione di Baudelaire, uno che pur avendo accettato la condizione di capro espiatorio, non per questo non aveva tentato di non farsi inghiottire dall'anonimia sociale, difendendo a oltranza la sua libertà: «Nelle numerose enunciazioni dei diritti dell'uomo, due piuttosto importanti sono stati dimenticati, e che sono il diritto di contraddirsi e il diritto di andarsene».
Quest'ultimo è per Calasso «l'unica via d'uscita dalla coazione a subire la sorte della vittima espiatoria. Ora la disaderenza alla società - non più segnata da gesti vistosi ma da una silenziosa sottrazione di fede - diventa il nuovo segnale di riconoscimento, come di Rosacroce dispensati da ogni liturgia. Non è chiaro quanto un tale stato di incognito potrà durare né che cosa potrà produrre. Forse soltanto nuove forme. Si può immaginare che una polizia ancora più occhiuta snidi ogni renitenza, ma si può immaginare anche un improvviso alleggerimento della tensione - una volta che il Grande Animale, il Juggernaut della società, venga abbandonato come una immensa zavorra».
Costruito come un insieme di frammenti, Ciò che si trova solo in Baudelaire mette insieme, attraverso il magistero di quest'ultimo, una serie di idiosincrasie tipiche di Calasso. Il fastidio per un mondo che, a partire dal Settecento, «il primo secolo petulante», ha «come carattere la negazione del mistero»; la noia «come un mostro delicato», in grado però di «innervare la lingua e potenziarla»; l'attenzione «per il superfluo, anche in mancanza del necessario: regola di vita del dandy simile a una regola monastica». Infine, il fastidio per «le zampe ungulate del materialismo dialettico» quando pretendono, come nel caso del mito, «di trarre dimostrazioni da una materia che gli è refrattaria».
Rispetto a La Folie Baudelaire, che era un vasto libro non solo su Baudelaire ma su tutta la Parigi intorno a lui, la «Grande Città, che era il crocevia dell'Europa, che era il crocevia dell'Ottocento, che era il crocevia d'oggi», questo ultimo saggio si concentra, a duecento anni dalla nascita del poeta, sulla peculiarità di Baudelaire in quanto nostro contemporaneo, l'unico ad aver dato «un'impronta definitiva a ciò che si è poi chiamato il moderno». La cosa può sorprendere se si ha degli antimoderni, quale appunto fu Baudelaire e quale appunto è stato Calasso, l'interpretazione corriva del tradizionalismo e del rimpianto, i revenants, i fantasmi del tempo passato. Al contrario, gli antimoderni sono i soli veri moderni, non gli apologeti più o meno candidi del tempo presente, ma coloro che in un certo senso hanno perso l'innocenza al riguardo, disincantati, liberi dal pregiudizio e dal feticcio del nuovo e proprio perché tali alla ricerca di un'arte che sia consona a ciò che le si muove intorno, non sterile ripetizione dell'antico, non fiacca ripetizione delle mode. È Baudelaire a definire il progresso, inteso come «la diminuzione progressiva dell'anima e la dominazione progressiva della materia» un «fanale senza luce, questa lanterna moderna che getta tenebre su ogni oggetto della conoscenza». È di Baudelaire la stroncatura di Voltaire e del suo razionalismo: «Come tutti i pigri odiava il mistero».
È infine e soprattutto di Baudelaire quel «diritto di andarsene» così caro a Calasso e che ha nella duplice figura del dandy, questo «sole al tramonto, senza calore e pieno di malinconia», e del flâneur, «un principe che gode ovunque dell'incognito, vedere il mondo, esserne al centro e restargli nascosto», la sua ragion d'essere, l'unico «bagliore d'eroismo nei tempi della decadenza».
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