Da Canaletto a Boldini: Sgarbi disegna la mappa del "Tesoro d'Italia"

Un viaggio che culmina nel ritratto del Piranesi antiquario. Che ricorda molto lo stesso autore...

Da Canaletto a Boldini: Sgarbi disegna la mappa del "Tesoro d'Italia"

«Ricordo ancora quel 1963, io poco più che bambino e il nome di Boldini tornare con frequenza nelle conversazioni con un'aura magica. Nella nostra piccola città provinciale erano arrivati i quadri di un grande pittore internazionale, amico degli impressionisti». Sembra un passo delle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani e invece è il lungo, fluviale capitolo conclusivo del nuovo libro di Vittorio Sgarbi, Dal mito alla favola. Da Canaletto a Boldini, quinto volume del Tesoro d'Italia, appena uscito per i tipi de La nave di Teseo (pagg. 489, euro 25).

Nella ricostruzione di quella mostra, che Sgarbi ricorda come un'occasione epocale, grazie a cui «dopo anni di silenzio e di ricostruzione, Ferrara cominciava a riconquistare il suo spazio nella cultura europea», è inscritto il racconto conciso di un miraggio provocato dalla distanza temporale. «Nella deformazione della memoria, a quasi quarant'anni di distanza, mi figuro di aver visto i quadri di Boldini nel convento di Sant'Anna, dove fu ristretto Torquato Tasso». Sgarbi invece ritrova il catalogo e scopre che l'esposizione si tenne a Casa Romei. Questa fata morgana, il figurarsi un quadro, una mostra o un artista in un posto, più poetico e nascosto, diverso da quello che il corso mainstream della storia le ha assegnato, e lì collocarlo, con una scrittura che è essa stessa il miraggio di una storia dell'arte possibile diversa da quella ufficiale, è un po' il filo rosso nascosto di questo nuovo libro di Sgarbi. Che si consuma in tre notti, ma che andrà poi meditato per anni, perché disegna una mappa inedita di nomi, luoghi e opere, che ci costringerà ancora una volta a prendere, uscire di casa e avventurarci sulle sue tracce.

Da sempre il tema di Sgarbi è l'Italia. Con gli anni quel tema si è precisato, diventando il Rinascimento. L'ambito dei suoi interessi, il perimetro della materia che tenta di ricostruire con un nuovo montaggio, chiamiamolo anti-vasariano, ma in qualche modo anche anti-longhiano (pur se procede dalla lezione di Longhi, filtrata da quella di Francesco Arcangeli), si è però paradossalmente allargato. «L'Italia si era costruita con il Rinascimento e finisce con il Risorgimento». Proprio dove tutti gli altri la fanno iniziare. È un brano del capitolo dedicato a Giovanni Battista Piranesi, intitolato «Il funerale del Rinascimento», che in realtà per la storiografia ufficiale è bel che finito da almeno due secoli e mezzo quando opera il grande architetto e incisore. Ma per mettere a fuoco il periodo in cui normalmente si includono Michelangelo, Raffaello, Bramante e Palladio, Sgarbi utilizza «una più ampia gittata che va da Giotto a Tiepolo».

Sistemato sull'ultimo bastione di questo tempo lunghissimo, Piranesi gli appare «fisicamente circoscrivibile» anche se «resta inafferrabile. Vive contemporaneamente nell'antico e nel moderno, non tradendo nessuno dei due tempi, con lo spirito di un uomo del Rinascimento, che li fonde insieme. Il suo modello e alter ego resta Palladio, ma lo supera in uno spazio visionario, popolato da fantasmi che vivono contro qualunque minaccia di archeologia e di reale museificazione». Non so se Vittorio Sgarbi se n'è accorto, ma il profilo che fa del Piranesi antiquario è un perfetto autoritratto. Potrebbe averlo scritto allo specchio, magari indossando un tabarro da Nosferatu, abituato ad attraversare nello spazio brevissimo di una notte tutto l'abisso del tempo, risalendo i secoli, riconoscendoli uno sull'altro in oggetti e luoghi in cui spesso si sedimentano e sovrappongono. Attenzione però, il vampiro è ancora là fuori: «Il Rinascimento non muore con Piranesi. Dopo il suo funerale solenne si rigenera nel neoclassicismo, e nell'opera olimpica (mai notturna, mai tormentata, mai onirica, com'era stata quella di Piranesi) di Antonio Canova».

Lo sguardo torna allora ad allungarsi, dedicandosi ora ad artisti apollinei e senz'ombra, come Andrea Appiani, Gaetano Gandolfi, Ignazio Stern e Filippo Agricola, che nel Ritratto di Costanza Monti Perticari nella Roma papalina del primo Ottocento continua a dipingere come Raffaello davanti alla Fornarina, o il napoletano Paolo De Matteis, la cui pittura classicheggiante sembra vivere nel mondo delle idee di Platone, «più essenza che esistenza». Resta la sensazione che la passione di Sgarbi sia più forte per un altro tipo di artisti, come l'altro partenopeo Leonardo Coccorante, «tra i più solidi e convinti pittori di rovine, non prive di una declinazione malinconica favorita dalla scelta prevalente di situazioni d'incerta condizione meteorologica, perturbazioni atmosferiche, nuvole basse, in prossimità di edifici classici diruti o di vasti giardini in riva al mare».

E il Tesoro è leggibile anche come una galleria di artisti più atmosferici e pensosi, vissuti nel cono d'ombra di pittori e scultori che appaiono ai loro contemporanei più risolti e facili. Per un Canaletto, c'è quasi sempre un Bellotto per cui la simpatia di Sgarbi è più scoperta, l'interesse più febbrile. È una controstoria nella controstoria, il riconoscimento di una sintonia più forte dentro un disegno di riscrittura dei valori che mette sullo stesso piano i maestri che stanno nei manuali di storia dell'arte e il genio dei minori. Nelle pagine dedicate ad Antonio Fontanesi, si legge: «Non si dice abbastanza quanto lo spirito malinconico padano abbia in lui uno dei massimi esponenti, in una lunga declinazione che ha i suoi campioni in alcuni sublimi pittori antichi, come i ferraresi Ortolano, Bastianino, Scarsellino, Previati, in poeti come Torquato Tasso, in artisti più recenti come Arnaldo Ferraguti e in scrittori nostri contemporanei come Giorgio Bassani.

Ma la malinconia del fiume occupa la mente anche di pittori cremonesi come Boccaccio Boccaccino, o Luigi Miradori, detto il Genovesino, e di polesani come lo scrittore Gian Antonio Cibotto».

È l'individuazione di una cerchia che attraversa il tempo di questo libro e lo supera. Solo qui Sgarbi, contravvenendo alla sua immagine ipercinetica e mondana, sembra ritrovare pienamente se stesso.

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