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Carlo Diano e la totalità dell'autentico intellettuale

Dai classici greci e latini a Leopardi: nei suoi libri si fondono filosofia e filologia, poesia e mitologia

«Io non sono italiano, sono un greco di Calabria». Amava dire così di sé Carlo Diano, straordinario protagonista del pensiero italiano del secolo scorso, di cui Bompiani pubblica ora meritoriamente le Opere, nell'amorosa cura della figlia, Francesca Diano (con contributi di Massimo Cacciari e Silvano Tagliagambe, Bompiani, pagg. 2112, euro 75).

Nato a Vibo Valentia, laureatosi a Roma, Diano, molto legato a Giovanni Gentile, fu tra i pochissimi a rifiutarsi di giurare fedeltà al Partito Fascista, e venne per questo inviato - proprio grazie alla mediazione di Gentile - in Svezia e Danimarca come lettore di italiano. Al suo ritorno in Italia, dopo un periodo a Roma, vinse il concorso di Letteratura greca e andò ad insegnare all'Università di Padova. Filologo, poeta e filosofo, grande lettore e finissimo esegeta, amico di Mircea Eliade, Kerényi e De Martino, Diano è stato un vero intellettuale, «antico» e «totale», in maniera ben diversa dai suoi sconfortanti epigoni: non a caso, diceva che «se non si può fare la filologia di un poeta senza poetare, chi fa la filologia di un filosofo deve filosofare».

In Forma ed Evento, suprema fusione di filosofia e filologia, Diano individuava nello spirito greco due mondi, quello della forma - «ineffabile, che non si insegna: si vede o non si vede: infiniti uomini muoiono senza averla vista, filosofi anche. Ma l'uomo più ingenuo può vederla, e chi la vede, la vede come per una grazia, all'improvviso» - e quello dell'evento. Achille, l'eroe della passione senza sfumature, per cui nessuna trasformazione è possibile, è simbolo della forma, mentre Odisseo, l'eroe «dalla mente colorata», della metamorfosi e dell'intelligenza, è simbolo dell'evento, e sa che «la gloria è un'illusione e l'unica realtà è il dolore». Secondo Diano, Achille e Ulisse sono le anime della Grecia, «e convergono in Socrate, che ha l'intelligenza di Ulisse e la forza di Achille, ma muore come Achille». Questo stile ellittico e densissimo, che rispecchiava la sua personalità e «l'erompente entusiasmo per le cose delle quali si nutre con un calore che rasenta l'infantilismo o il candore dell'innocenza» - come scriveva Lea Quaretti, moglie del suo editore Neri Pozza - caratterizza anche gli scritti sulla tragedia, interpretata come «scontro tra forma ed evento»: e Medea, che è donna e dea, è «terribile nelle sue ire quanto è soave nelle sue grazie», mentre Giasone è «solo» la voce della ragione che, però, «non sempre s'accorda con la vita». Le Baccanti euripidee, invece, sono una «visione apocalittica, di un mondo che torna al caos», dove non c'è - e non può esserci - catarsi. Non a caso Euripide era l'unico tragico antico ancora presente nel teatro dell'assurdo del Novecento, dato che aveva già raggiunto «quell'esistenza denudata dell'essenza, svuotata di valore, senza più dimensione».

Non meno ardenti e acute sono le parole sui latini, come quelle su Virgilio, che insegna «a votarsi alla legge suprema del dovere, che nulla è se non legge dell'amore», o su Orazio, su cui Diano innesta, ancora e sempre, la fusione tra filologia e filosofia, mettendo a confronto la dottrina di Epicuro, che culmina nel carpe diem, e la stoica, fondata sul culto della virtù e del dovere sociale: e arriva a definire il poeta - diviso tra la saggezza delle Epistole e «la follia della lirica che dà le ali» - contemporaneamente «stoico ed epicureo».

In Saggezza e poetiche degli antichi, Diano affrontava anche un altro «e non minore miracolo dei Greci», e cioè l'idealizzazione dell'eros che, per la vergogna delle cose brutte e l'ambizione di quelle belle - come spiegava meravigliosamente Platone nel Fedro - può «abbandonare la sfera fisica ed elevarsi a quella dello spirito»: un eros sacro già assoluto in Saffo, che ne è «squassata come il vento che sul monte si getta sulle querce», e descrive un amore «che educa alla grazia, ma che, per chi sappia tenere gli occhi alti, è assai più vicino al divino».

Un animo di questo tipo non poteva non essere folgorato da Leopardi, che lo accompagnò per tutta la vita: un poeta che «ha percorso tutta la scala sentimentale del dolore e della disperazione», ma che arriverà, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, a definire la disperante monotonia dell'universo con dolente, rassegnata dolcezza, in una «forma calma, precisa, come di uno che abbia vinto in sé ogni agitazione».

Per definire questo impetuoso viaggio letterario e filosofico, attento ad ogni sfera dell'esistenza, però, forse non ci sono parole migliori di quelle che lo stesso Diano scriveva in una lettera a Kerényi: «la mitologia va trattata come

un'opera d'arte, e non c'è cosa umana che possa essere trattata diversamente. Bisognerà forse che tutte le discipline concorrano a scrivere questa storia unica dell'uomo, che è la storia dell'anima e di Dio - del mondo!».

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