Castelporziano, 1979. La svolta stracciona della cultura italiana

Al Festival internazionale dei poeti: caciara, lancio di sedie e il minestrone invece dei versi

Castelporziano, 1979. La svolta stracciona della cultura italiana

Nell'estate del 1979, sulla spiaggia di Castel Porziano, su un palco di 40 metri per 10, alto sulla sabbia, si celebrò il Festival internazionale dei poeti, che fu un reading, un sogno, un incubo, una follia, un rito, uno psicodramma: richiamò poeti da tutto il mondo e un pubblico di ragazzi che si ingrossò giorno dopo giorno sino ad arrivare a trentamila presenti. Gli organizzatori furono l'assessore alla cultura di Roma Renato Nicolini, comunista dinoccolato e alla moda tanto quanto i comunisti erano stati severi e ideologici sino ad allora; Simone Carella, regista geniale del Beat '72; Ulisse Benedetti, manager dello stesso teatro; e, soprattutto, Franco Cordelli, che ne fu, come si direbbe oggi, direttore artistico.

Il Festival ebbe un successo mediatico travolgente. Cordelli ne scrisse a caldo in un libro che poi pubblicò nel 1983, e che oggi ritorna in libreria, Proprietà perduta (L'Orma Editore, pagg. 262, euro 24). Devo dire che ho provato un senso di spaesato intenerimento rileggendolo. Io c'ero a Castel Porziano, e ci sono nelle pagine del libro, radiografato in un momento giovanile, aurorale, di formazione, delicato quanto disperato. C'erano anche Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Cesare Viviani. E Valentino Zeichen, Dario Bellezza, Nico Orengo, Sebastiano Vassalli, che non sono più tra noi. Cordelli, il romanziere, il «capitano addetto alla fureria», si erge su tutti come personaggio chiave, che parla di sé in terza persona, e si esprime su tutti come per governare sui suoi coetanei e decretarne meriti e fallimenti. Sarebbe molto limitativo parlare di reportage o di resa dei conti generazionale, per questo libro. Cordelli mescola le carte, e ne viene fuori un libro vitalissimo, totalizzante e rapsodico, illuminante e oscuro, difficile e sommamente leggibile, pieno di osservazioni comminatorie, folgoranti, ellittiche, non soltanto sulla poesia, ma anche su costume, politica, ideologia, e sulla pratica letteraria dell'autore stesso. Il cui combustibile per scrivere, per sua stessa ammissione, è il meccanismo mentale che osserva se stesso, al di fuori di tutto il resto, uno psichismo ossessivo che quando si scioglie produce pagine taglienti e felici.

Ci sono nel libro tanti ritratti di poeti americani, le star del Festival. William Burroughs in abito scuro, freddo, professionale, come nessuno immaginava l'autore del Pasto nudo, Allen Ginsberg, che ha dismesso gli abiti da guru, e ora si presenta affabile e impersonale, Gregory Corso, un po' sdentato, Ferlinghetti con la sua barba a ricci, Diane di Prima, John Giorno. E amari ritratti di poeti francesi, gli sconfitti del Festival, la redazione di Tel Quel, Marcelin Pleynet, Denis Roche, Jaqueline Risset, il cui prestigio intellettuale non vale niente su quel palco. Evtusenko è indignato dal caos che regna intorno, un caos che indispone persino Amiri Baraka, il poeta ribelle seguace di Malcolm X.

Il pubblico, formato da ragazzi soprattutto meridionali in cerca di trasgressioni e emozioni forti, cannibalizzò i poeti. Divenne protagonista assoluto. Me li ricordo, simpatiche orde di coatti ostentatamente nudi, uccelli e tette che se ne fottevano dei poeti, gente che applaudiva soltanto gli americani perché erano americani, con il solito provincialismo di chi in America non è mai stato, e una tipa infreddolita e sballata, tenera a suo modo, che si impadronì del microfono e farfugliò una serie di frasi senza un senso percepibile, il cui unico legame era un «cioè» coercitivo ripetuto centinaia di volte. I giornali la chiamarono la Ragazza Cioè, appunto. Sul palco piovevano sacchetti di sabbia e seggiole. Dacia Maraini, troppo famosa per quel pubblico, fu zittita e dovette rinunciare, Viviani e Bellezza lottarono, con ironia aggressiva il primo, con insulti plateali il secondo. Dario non ci metteva molto: fu lui che si rivolse a Patti Smith con le sante parole: «Giù le mani da Rimbaud, stronza!». Io me la cavai leggendo una poesia di Lawrence sul mare, almeno Ginsberg approvò, mi trovò «funny», divertente. A un dato momento i ragazzi presero il sopravvento, portarono sul palco una pentola gigante di minestrone. Allora io non mi divertii più. Minestrone, neppure alla genovese, al posto della poesia: che porcheria era? Intravidi la piega stracciona, borgatara che avrebbe preso una parte della cultura nel nostro Paese. La vittoria dell'effimero, dello spettacolo trash.

Poi alla fine il palco collassò sulla sabbia. Non ci lasciò le penne nessuno, fu una fine non tragica, da commedia all'italiana. Nonostante tutto, leggendo Cordelli, che poi dedica una parte del libro al Festival di Piazza di Siena, organizzato l'anno dopo, ho ancora l'impressione che lì, in quel disordine, ci potevano essere i segni di un rilancio mondiale della cultura italiana, che poi non ci fu. Qualche mese dopo, ero a New York e una domenica pomeriggio andai nella Bowery a trovare John Giorno. Di Castel Porziano aveva parlato anche la stampa americana. Quando mi accompagnò giù per le scale, sul pianerottolo del piano sotto il suo sentii il vociare di una televisione a volume altissimo, chiesi chi abitava lì: Burroughs, mi rispose lui. Capite, Burroughs la domenica pomeriggio era in casa a guardare la televisione, più o meno come mia madre.

Da allora ho pensato che, nonostante fossi soltanto un giovane povero autore italiano, non avrei dovuto più avere nessun senso di inferiorità, che tutto cambia, che il vero Festival è l'amore duraturo, ribelle per la poesia che deve ancora venire.

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