Alle 2 e 30, nella notte del 25 luglio 1943, la lunga parabola politica di Benito Mussolini si schianta contro il muro della sfiducia, votata dal Gran consiglio del Fascismo. La vittoria della mozione presentata da Dino Grandi - 19 voti a favore, 7 contrari, 1 astenuto - e il successivo arresto, la mattina seguente, di Mussolini a Villa Savoia sono un turning point della Seconda guerra mondiale e quello che è accaduto nei convulsi giorni a seguire, sino all'armistizio dell'8 settembre, è stato studiato dagli storici con precisione certosina. Più difficile indagare il percorso che ha portato all'arresto dell'uomo che, per un ventennio, aveva controllato l'Italia. Come è stata costruita la tela di relazioni di Grandi, Presidente della camera dei fasci e delle corporazioni, per giungere al voto? Come hanno agito Vittorio Emanuele III e la corte ormai certi dell'impossibilità di continuare la guerra? Che ruolo hanno avuto i militari? Che ruolo hanno avuto i tedeschi visto che ormai si fidavano pochissimo della tenuta del fronte italiano? E soprattutto come è caduto Mussolini nella trappola della sfiducia di un organo che era solamente consultivo e che lui considerava ancora fondamentalmente malleabile?
Sono tutte domande a cui cerca di rispondere il saggio di Paolo Cacace, Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (pagg. 366, euro 25) appena pubblicato per i tipi de il Mulino. Muovendosi anche attraverso fonti inedite, ricostruisce con dovizia di dettagli quanto accade nei sei mesi precedenti la caduta. Ne esce un arazzo storico complicato nella trama e nell'ordito dove risulta evidente che attorno al regime morente si sviluppano più tentativi di golpe che si intrecciano. Esiste in un certo senso, ed è l'a priori di tutta la vicenda, un golpe tedesco. Mussolini e gli alti comandi italiani da mesi e mesi chiedono che l'equilibrio dello sforzo bellico dell'Asse venga spostato. Sanno bene che la penisola è indifendibile senza una pace separata coi russi per concentrare tutte le forze nella zona del Mediterraneo. È quello che sostanzialmente Mussolini chiede nell'incontro nel castello di Klessheim, il 7 aprile del '43. Tutte le sue richieste sono rigettate. I tedeschi considerano ormai l'Italia una zona sacrificabile in cui guadagnare tempo contro gli alleati. Ogni loro intervento nello scacchiere del Mediterraneo viene sostanzialmente subordinato all'idea di esautorare le autorità italiane, in primis la monarchia e i vertici delle forze armate. Ci sono tutte le premesse che porteranno allo sviluppo del Piano Alarico (simbolico fin nel nome) per occupare la penisola. Himmler suggerisce al Duce di fornirsi di una milizia simile alle SS. Più crudamente confiderà a Dollmann: «Su Mussolini non è più il caso di contare».
Gli efficienti servizi segreti tedeschi hanno ben chiaro che l'Italia è allo stremo e la cinica risposta del regime nazista è quella di calcolare come sfruttarla sino all'ultimo. In questo caso nemmeno i militari italiani, a partire dagli ambienti più legati alla massoneria, però stanno a guardare. C'è un pezzo di Esercito che avrà i suoi uomini di punta nei generali Giuseppe Castellano, Vittorio Ambrosio e Giacomo Carboni, che intuendo il rischio di subordinazione completa ai tedeschi si muove autonomamente. Questo progetto si innesta su posizioni più titubanti della Casa Reale che mantenne i contatti con i congiurati ma a lungo non diede il suo placet. Il Re, come Mussolini, seppure all'altro capo della diarchia che governa il Paese, è prigioniero delle stesse dinamiche. Vede la minaccia tedesca, capisce la guerra insostenibile, ma stima come assai difficile il liberarsi di Mussolini, senza almeno un puntello costituzionale al suo intervento. Ed è in questo senso che sono rilevanti i suoi contatti con Grandi anche se non tutti storicamente tracciabili. In quest'ambito Cacace ricostruisce con dovizia di particolari le attività del ministro della Real casa Pietro d'Acquarone, vero deus ex machina del tentativo monarchico di trovare una via d'uscita.
Del resto nell'ambito di Casa Savoia si muove con grande autonomia anche la principessa Maria Josè, moglie di Umberto II, che mantiene attivi contatti con gli antifascisti. C'è poi Pietro Badoglio, l'uomo su cui scommetterà Vittorio Emanuele III per una uscita dal conflitto a rate, prima con l'estromissione dal potere di Mussolini e poi con il tentativo di placare i tedeschi con il celebre «la guerra continua» che non ingannerà nessuno. Badoglio fece essenzialmente parte per se stesso, l'ennesimo percorso parallelo.
Una situazione complessa in cui il Paese è potenzialmente già spaccato, le spie degli alleati e dei tedeschi tessono le loro trame, e in cui un Mussolini allo sbando appare anodino. Finisce per mettere a capo di tutti i più importanti gangli militari proprio gli uomini che più vorrebbero il suo allontanamento. E contemporaneamente rifiuta di ascoltare quando questi gli chiedono posizioni rigide coi tedeschi. Forse perché sa di non riuscire a tenerle. Proprio come nell'ultimo vertice con il Führer prima della caduta, passato alla storia come incontro di Feltre (19 luglio). I tedeschi temono di essere stati attirati in una trappola, una sorta di Notte di San Bartolomeo. I generali italiani intimano al Duce di dire che si esce dal conflitto in 15 giorni. Hitler conciona per ore e schiaccia il Duce. E intanto un gruppo di alpini si prepara a portare avanti un attentato a colpi di bomba a mano per uccidere i due i dittatori.
L'attentato si rivelò infattibile, avrebbe potuto chiudere diversamente la storia della
Seconda guerra mondiale. Non accadde e tutti i fili di queste trame si riannodarono soltanto la notte del 25 luglio. Quando ormai la porta per uscire dal conflitto senza essere divorati dai tedeschi era chiusa per sempre.
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