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Così Napoleone stregò il monarchico Bainville

Torna in libreria il saggio su Bonaparte scritto nel 1931 dal colto storico dell'Action française

Così Napoleone stregò il monarchico Bainville

In una giornata di fine marzo del 1900 presso il Café de Flore, storico locale parigino situato nel quartiere di Saint-Germain-de-Prés e ritrovo dell'intellettualità più vivace e anticonformista, ebbe luogo un incontro fra due persone che sarebbero diventate inseparabili e avrebbero legato il loro nome alla storia e alla cultura francesi. Si trattava di un giovanotto che aveva festeggiato da poco il ventunesimo compleanno, Jacques Bainville e il fondatore dell'Action Française, Charles Maurras, che aveva superato la trentina ed era un personaggio già noto nel panorama culturale e politico francese. Al Café de Flore, Maurras, che abitava in un appartamento proprio sopra il locale, era di casa e vi trascorreva molto tempo conversando con amici e letterati ma anche scrivendo, tant'è che alcuni decenni più avanti avrebbe intitolato un celebre libro Au signe de Flore. Quel giorno aveva convocato una riunione di collaboratori cui si era unito Bainville e del quale egli rimase affascinato, come raccontò in seguito, per lo «sguardo fiammeggiante».

Rampollo di una famiglia benestante di tradizioni politiche repubblicane che sognava di farne un medico, Jacques divenne monarchico e decise di dedicarsi alla scrittura. Era un giovane di bell'aspetto, come ci confermano foto e ritratti oltre, naturalmente, ai ricordi di chi lo frequentò. Esile e distinto, il volto affilato e i capelli pettinati con la riga in mezzo, i baffi maniacalmente curati, vestiva con un'eleganza discreta che ne metteva in risalto il fisico agile e scattante. Non c'era particolare che trascurasse: i gemelli d'oro, la pochette bianca, la cravatta annodata con cura impeccabile, le scarpe di vernice tirate a lucido. Quel che più colpiva, però, di lui erano i grandi occhi neri, l'espressione intensa e visionaria, l'atteggiamento pensoso e riflessivo. Non amava, malgrado l'aspetto raffinato e compiaciutamente elegante da dandy della Belle Époque, la mondanità e i suoi riti salottieri. Ai quali, per la verità, si convertì dopo il matrimonio celebrato quand'era avanti negli anni e, forse, solo perché, come confidò a Maurras, era «stanco di andare a letto con le mogli degli altri».

All'epoca dell'incontro con Maurras che avrebbe segnato l'inizio di una collaborazione destinata a durare fino alla sua prematura morte, Bainville aveva già scelto la carriera di storico. Tant'è che, proprio in quello stesso anno, uscì il suo primo lavoro, Luis II de Bavière, una biografia dello sfortunato sovrano scritta con quella eleganza e quel nitore stilistico che avrebbero caratterizzato tutti i suoi lavori.

Egli, in fondo, era uno storico nato. Lo era anche quando scriveva articoli di politica internazionale per il quotidiano monarchico e nazionalista L'Action Française nella cui redazione condivideva la stanza con un famoso polemista sanguigno e irriverente, Léon Daudet, autore del celebre Le stupide siècle XIX (del quale c'è un'ottima traduzione di Orsola Nemi pubblicata anni or sono da Oaks) e da lui diversissimo nell'aspetto fisico e nei comportamenti pubblici ma a lui legato da un rapporto di amicizia e stima quasi simbiotico. A differenza di Daudet, il quale amava l'invettiva impulsiva e colorita scritta intingendo il pennino nell'inchiostro all'acido prussico della vis polemica, egli era invece un ragionatore freddo che argomentava le proprie tesi supportandole con pacatezza e rigore dialettico. Anche quando affrontava temi delicati come i rapporti tra Francia e Germania, avvelenati all'epoca dal ricordo di Sedan, non perdeva mai né l'equilibrio interpretativo né il realismo storiografico. Lo dimostrano i due volumi Histoire de deux peuples (1915) e Histoire de trois générations (1918) che pure non celavano quel sentimento antitedesco, politico ma non culturale, che, nel settembre 1918, gli aveva fatto annotare nel Journal: «l'esistenza di una Germania potente avvelena tutta la vita europea, finché esisterà la potenza tedesca, non ci sarà riposo né possesso tranquillo per alcuno».

A riprova del suo realismo politico c'è una sua opera celebre, Les conséquences politiques de la paix (1920), che, facendo da ideale pendant al saggio di John Maynard Keynes sulle «conseguenze economiche» della pace, faceva suonare un campanello d'allarme. In questo saggio le cui conclusioni sarebbero state apprezzate da Raymond Aron, egli sosteneva i fatti gli avrebbero dato ragione che le durissime condizioni imposte, soprattutto per la volontà moralistica di Woodrow Wilson e di David Lloyd George, dalla Conferenza di pace di Parigi alla Germania avrebbero generato nei tedeschi un desiderio di rivalsa destinato a sconquassare l'equilibrio internazionale.

La fama, anche internazionale, di Jacques Bainville come storico e scrittore di storia vivace e appassionante è legata, però, soprattutto a due opere che, fin dal loro apparire, fecero registrare un successo clamoroso e furono ristampate in continuazione: la Histoire de France (1924) e Napoléon (1931). Quest'ultima, in particolare, viene ora riproposta in italiano con il titolo Napoleone (Book Time, Milano, pagg. 512, euro 20) nella bella traduzione che un letterato fine ed elegante come Francesco Flora approntò nel 1932. Un motivo di interesse per questa biografia napoleonica sta nel fatto che essa è uscita dalla penna di un autore gravitante nell'ambiente dell'Action Française che, per motivi ideologici, osteggiava l'imperatore visto come erede della tradizione rivoluzionaria ovvero come creatore di una «nuova legittimità» alternativa a quella dell'Ancien Régime. Non è un caso che proprio il sanguigno Daudet, nel 1939, pubblicasse un pamphlet dal titolo Deux idoles sanguinaires, la Révolution et son fils Bonaparte, forse al fine di correggere l'immagine che la fortunatissima opera del suo amico Bainville stava diffondendo nel Paese. E non è un caso, neppure, che lo stesso fondatore dell'Action Française, Maurras, avesse dato alle stampe, l'anno successivo all'uscita della biografia dell'imperatore, un saggio dal titolo Napoléon avec la France ou contre la France? (1932).

Bainville ruppe l'anatema imposto dall'Action Française nei confronti dell'imperatore ma, quando giovanissimo aveva cominciato a interessarsi di Napoleone, ne aveva dato un giudizio negativo imputando alla Francia imperiale di aver svegliato «ciò che sarebbe stato meglio lasciare dormire», cioè quel sentimento di nazionalità che avrebbe portato all'unità germanica e al superamento della divisione del territorio tedesco in staterelli rivali la cui presenza conflittuale garantiva la sicurezza francese. In seguito, egli cambiò gradualmente idea su Napoleone in più scritti, fino a giungere alla biografia del 1931, che non è solo un grande capolavoro della storiografia francese ma anche un riuscito tentativo di introspezione psicologica.

Da monarchico convinto, Bainville non poteva amare Napoleone ma lo ammirava e ne raccontava la vita come risultante di uno scontro prometeico fra volontà dell'individuo e fatalità delle circostanze, ovvero di un misterioso intreccio tra cause ed effetti, Scrive Bainville, nelle ultime pagine del libro: «come i suoi soldati amavano in lui la loro gloria e le loro sofferenze, gli uomini si ammirano in Napoleone: senza tenere conto né degli avvenimenti che gli avevano permesso di salire così in alto, né della scienza consumata con la quale egli

aveva afferrato le circostanze, essi si stupiscono che un mortale abbia potuto compiere una simile scalata». Sono parole che, al di del giudizio storico-politico, spiegano il motivo del perdurante fascino dell'imperatore.

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