Cvetaeva, in "Sette poemi" tutti i versi dell'infinito

L'esilio fisico e spirituale dell'autrice nel segno di Pasternak e Rilke. In una biografia tracciata dalle sue stesse opere

Cvetaeva, in "Sette poemi" tutti i versi dell'infinito

La lettera d'amore più bella è a un morto. È stata scritta in Francia, a Bellevue, il 31 dicembre 1926, alle «10 di sera», indirizzata all'al di là. «Se tu sei morto - vuol dire che non esiste nessuna morte». Rainer Maria Rilke muore il 29 dicembre, da maggio ha un denso rapporto epistolare con Marina Cvetaeva. Nella prima lettera a Rilke, d'altronde, la Cvetaeva aveva scritto, con la consueta, feroce certezza: «Poeta è chi oltrepassa (chi deve oltrepassare) la vita». Appena viene a sapere che Rilke, l'icona della poesia, è morto, la Cvetaeva gli scrive: una lettera di folle intimità («Rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra... Tu e io non abbiamo mai creduto nel nostro incontro in questa vita... Caro, amami più forte e diversamente da tutto»), con la pretesa di poterlo radiare dai morti («l'irraggiungibile non è mai alto»), convinta che la morte non scioglie un legame, lo sigilla, indelebilmente. Di certo, la morte di Rilke rende radioso il genio poetico di Marina, che a lui dedica Per l'Anno Nuovo, poema di scostumata bellezza, come un fiotto di diamanti («A-rivederci! A-conoscerci./ Se ci vedremo - non so, ma sarà unisono./ Buona terra - incognita a me, ancora -/ Buona marina tutta, Rainer, buona me!»). Il giorno dopo aver scritto a Rilke, tra i defunti, Marina scrive a Boris Pasternak. «Boris, non andremo mai più da Rilke. Quella città non esiste più... Vedi, Boris: in tre, da vivi, non sarebbe comunque venuto fuori nulla... L'altro mondo, comprendimi: luce, luminosità, cose illuminate in un altro modo, dalla luce tua, mia».

Boris Pasternak e Marina Cvetaeva si scrivono da anni, dal 1923. «Siete il primo poeta che - in tutta la mia vita - vedo», gli aveva scritto, Marina, con il solito desiderio di sfracellarsi nell'altro, consapevole che la poesia è una prigionia («Su nessuno degli altri ho visto il marchio da ergastolano del poeta»). Era stato Boris a mettere in contatto Marina con Rilke: l'esito è il più vertiginoso ménage à trois epistolare della storia della letteratura (tradotto come Il settimo sogno. Lettere 1926 da Editori Riuniti nel 1994, leggibile, in parte, nei due volumi Adelphi che raccolgono le lettere della Cvetaeva: Il paese dell'anima, 1988, e Deserti luoghi, 1989). La Cvetaeva ha bisogno di punteggiare di vampiri le vite altrui, di divorare, attraverso l'incanto della parola, il sabba retorico. Il sangue succhiato dalle lettere, poi, le è utile per fare poesia. «Vento soltanto è caro al poeta!/ Ho una certezza - i corridoi.// Attraversare è tutto, per le armate», scrive in Tentativo di stanza, poema che prima è dedicato a Pasternak, poi, sposalizio del fato, va a celebrare Rilke, «Una cosa molto importante, Boris... La poesia su te e me - l'inizio di Tentativo di stanza - è poi risultata una poesia su lui e me, ogni verso».

Tutta scritta, la vita di Marina, in esilio dalla Russia dal 1922, maritata a Sergej Efron, soldato bianco, poverissima - necessariamente, si direbbe -, in vagabondaggio tra Berlino, Praga, Parigi, sola, arresa alla grazia degli scontrosi e degli sconfitti, come risalta, con violenza, nei Sette poemi pubblicati da Einaudi (pagg. XLV-254, euro 16), tradotti da Paola Ferretti («Tracciare una Storia di Marina per Poemi», è l'intento, eccellente, della studiosa). «Ci hanno smazzato. Come carte», chiude una poesia del 24 marzo 1925, dedicata a Pasternak. «La Cvetaeva era una donna dall'animo virile, combattiva, indomabile. Nella vita e nell'arte si lanciava in modo impetuoso, avido e quasi rapace verso ciò che è definitivo e determinato, e per raggiungerlo si spinse lontano e superò ogni altro», scrive Pasternak, trent'anni dopo, quando tutto è passato, ed è effimero epitaffio, troppo tardi. L'aveva letta, Marina, la prima volta, nel 1917, senza troppa soddisfazione, per poi scoprirla, clamorosamente («fui conquistato dalla potenza lirica della cvetaeviana, una forma intimamente vissuta»), nel 1922.

Negli stessi anni, un secolo fa, Marina si cinge nell'amicizia di Sonecka Holliday, attrice di travolgente bravura, stigmatizzata, pure lei, da un destino disordinato, di fede nell'arte, di sregolatezza, di infelicità. «Il suo era - il colore acceso dell'eroe. Di chi ha deciso di bruciare per riscaldare gli altri», scrive di lei - cioè, di se stessa - la Cvetaeva, in Sonecka (ora Adelphi, pagg. 287, euro 14), «il più grande prodigio di Marina», secondo Serena Vitale. Il libro fonde reportage, biografia stellata e virtuosismo - ricorda un po' la prosa vitale, da cardiopalma de Il salvacondotto, l'opera in prosa più grande di Pasternak -, dialoghi sincopati e affetto senza assoluzione («Sonecka se ne andò - via da me - verso il suo destino di donna. Non venendo a trovarmi si limitò a obbedire alla propria vocazione di donna: amare un uomo - in fondo poco importa quale - e amare solo lui fino alla morte. Io, il mio amore per lei, il suo per me: il nostro reciproco amore non rientrava in nessun comandamento. Di noi due non si cantava in chiesa e non era scritto nei Vangeli»). Personalità dispari, imparentate all'assoluto, Marina e Sonecka. Come sempre, Marina scrive per defraudare la morte. La grande attrice che passò dall'estasi all'asfissia dell'irriconoscenza, dai teatri ai postriboli dell'oblio, morì nel 1934. Nel 1937 la Cvetaeva la riporta in vita, con quella prosa che brucia. Poi, sarà il suo turno, precipitosamente, di morire. Così, laconica, la Vitale ricorda la fine della poetessa di denti e di incensi, del marito Sergej, dei figli Alja e Mur: «Anche Marina tornò, con Mur, in Unione Sovietica - non aveva scelta. Morì suicida il 31 agosto 1941. Sergej venne fucilato il 16 ottobre dello stesso anno per attività controrivoluzionarie. Alja conobbe il lager e l'esilio. Mur cadde in combattimento sul fronte orientale nel 1944».

Al poeta Arsenij Tarkovskij, ennesimo amato nell'ambiguo dell'immaginazione, Marina confessò, alla fine del 1940, «Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta - un manoscritto», come a dire che tra vene e verbi non c'è distanza. Prima di impiccarsi, in quell'appartamento crudo, a Elabuga, aveva chiesto di essere assunta come lavapiatti.

Con Pasternak c'era stato quell'incontro, in inverno, avevano «camminato sotto la neve e sulla neve - e mi è passato tutto - come un giorno mi passerà - tutta la vita». Quando Pasternak, qualche anno dopo, regalò alla figlia della Cvetaeva una copia manoscritta del Dottor Zivago, fu come chiedere in sposa Marina, estorcerla dagli inferi, per i capelli.

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