«Mamma è morta stamattina. È la prima volta che mi fa soffrire» scrive Eric-Emmanuel Schmitt nel suo Diario di un amore perduto (e/o, pagg. 186, euro 16,50; in libreria da oggi) e, già da questa prima frase, si capisce quanto il drammaturgo/romanziere/regista/attore/sceneggiatore/saggista nato a Lione amasse la madre Jeannine Trolliet, campionessa di velocità di Francia nel '45 (con record sui 120 metri), morta tre anni fa. Questo Diario è il memoir, commovente e dolcissimo, dei due anni in cui l'autore di Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano e di Piccoli crimini coniugali ha reagito alla perdita della madre. «Non era difficile amarla, avevo molte più difficoltà con mio padre... Mia madre mi ispirava davvero, è ancora qui con me: tutto ciò che c'è di buono in me viene da lei» dice Schmitt al telefono da Bruxelles, dove vive.
Sua madre è morta il 28 marzo di tre anni fa. Il giorno in cui lei compiva 57 anni.
«Non so se abbia un significato, ma per me è un altro modo di sentire che c'è questa connessione fra noi».
Quando ha iniziato a scrivere il Diario di un amore perduto?
«Scrivo un diario da quando ho dodici anni, ma non sono mai stato costante. Quando mia madre è morta ho sentito la necessità forte di scrivere il diario, come se fosse una stanza intima, tutta per me, un modo per parlare di e a lei, e di stare con lei».
Quindi ha scritto per sé?
«Per due anni sì. Poi però ho scoperto che quello che avevo scritto non era un caos, come mi sembrava all'inizio: ho capito che esso era il sentiero del dolore che avevo percorso, l'iniziazione a un'altra vita, e così l'ho riscritto. E questa seconda versione è quella per i lettori».
La sua prima lettrice era proprio sua madre. Le raccontava davvero tutto?
«Non proprio tutto... Però dirle quello che mi succedeva era un modo di rendere la vita più leggera e affascinante: se era qualcosa di drammatico o di umiliante lo cambiavo, per renderlo romanzesco, e ne ridevamo insieme. E poi, all'improvviso, la vita non era più divertente, perché lei non era più qui e non potevo più raccontarle le cose in quel modo».
In quei due anni ha scritto altri tre libri: una terapia?
«Sono come un albero di mele che produce mele. Per me è naturale. Forse è una terapia, ma di solito non sono malato...».
E come le vengono tutte queste idee per i romanzi, i film, le opere teatrali?
«Oh, dalla vita. Tutto viene dalla vita. Io non vado mai in cerca di un soggetto, è la vita a offrirmi idee, personaggi, domande... Per me scrivere è un modo di vivere. Io sono membro dell'Académie Goncourt e sa, alcuni miei colleghi, quando finiscono un libro si mettono a cercare un argomento per il successivo; per me non è così, ho dieci romanzi, trenta racconti e dieci opere teatrali in testa, morirò prima di riuscire a darle al pubblico».
A proposito di Goncourt, che cosa fa un membro dell'Accademia?
«Un sacco di lavoro... E non pagato... Siamo dieci scrittori nella giuria del Premio e leggiamo i libri degli altri. Il Premio è in novembre, ma in primavera ci sono quelli per il romanzo d'esordio, per i racconti, per la biografia e per la poesia, quindi capisce come sia tutto un leggere, leggere, leggere. Solamente in settembre sono stati pubblicati 350 romanzi, solo francesi. E poi ci scriviamo fra noi, ogni settimana e a volte ogni giorno, per scambiarci opinioni».
Fra i nuovi talenti scoperti ce n'è uno che apprezza in particolare?
«Sono stato molto felice che lo scorso anno abbia vinto L'anomalie di Hervé Le Tellier (in italiano L'anomalia, La nave di Teseo), un autore eccellente, che ha 64 anni, e prima era quasi sconosciuto. È il Goncourt più venduto dai tempi di L'amante di Marguerite Duras».
Nel Diario parla anche della sua prima volta a teatro, a dieci anni.
«Fu un esperimento umanistico. L'arte è più dell'arte, e il teatro è più del teatro: è una esperienza totale. Era Cyrano de Bergerac e, per la prima volta in vita mia, piangevo non per me, bensì per un altro. Puro amore e compassione per un'altra persona. È stato meraviglioso, e ha cambiato la mia vita».
Ha deciso di diventare scrittore?
«In realtà ho deciso dopo la laurea in Filosofia. Ho insegnato per qualche anno all'Università, amavo quel lavoro, ma le mie opere teatrali avevano cominciato ad avere così successo, che ho lasciato».
Oltre a Filosofia ha studiato anche musica.
«Per me la musica è l'arte, la numero uno».
Più della letteratura?
«Oh sì. La musica mi porta direttamente alla parte più intima di me stesso, mi fa scoprire chi sono e come mi sento. È una guida. Posso stare un giorno senza leggere o scrivere, ma non posso stare un giorno senza suonare il piano o ascoltare musica».
Il suo preferito?
«Mozart. Amo il titolo di un mio libro tradotto in italiano, La mia vita con Mozart: è così, è sempre presente, mi sostiene, mi dà conforto e gioia e mi aiuta ad accettare la tristezza, anzi, a godere della tristezza. Rende la tristezza qualcosa di bello: è questo il potere di musica».
Il dolore non uccide, come scrive nel Diario?
«All'inizio, quando soffri, ti senti due persone: la mente vuole morire ma il corpo funziona ancora, e lotta per la vita. Questa lezione del corpo credo fosse un dono di mia madre, e perciò dovevo ascoltarla».
Scrive: «Ho scelto di inventare storie sia per amore che per disgusto della realtà».
«Quando scrivi, racconti quello che la realtà è ma, allo stesso tempo, la correggi, puoi creare un mondo migliore».
Come accade in La parte dell'altro, in cui immagina la vita «alternativa» di Hitler pittore in parallelo a quella vera?
«È un romanzo proprio su quello. Ma attenzione, ho corretto la realtà non in modo idealistico, bensì per comprenderla meglio. Comunque inventare è un piacere per me e, credo, anche per gli altri: amo la connessione fra chi racconta una storia e chi ascolta e, per me, creare è un modo di aggiungere qualcosa al mondo. Forse è vanitoso, ma è così».
Fra tanti generi, qual è il suo preferito?
«Adoro scrivere racconti. Sono la sintesi fra il teatro, dove devi essere conciso e breve, e il romanzo, in cui devi sentire la densità del tempo, dell'azione che si dispiega».
Ma come si fanno tante cose così diverse?
«C'è una cosa in comune, il raccontare storie. Sono uno che racconta storie. E poi ho bisogno di questo cambiamento continuo, perché amo avere paura, amo avere la sensazione che sia la prima volta. Se scrivessi sempre lo stesso libro, come fanno molti, per me sarebbe noioso...
Scrivo un romanzo, poi un racconto, poi un'opera teatrale, poi recito a teatro, poi scrivo un saggio, poi dirigo un film, così, quando avrò finito e mi rimetterò a scrivere un romanzo, mi potrò chiedere: oddio, sarò capace?».
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