Due film da ascoltare a tutto volume: Lou Reed e Jane Birkin

È il giorno dei documentari sull'antidivo americano e sulla diva inglese: applausi

Due film da ascoltare a tutto volume: Lou Reed e Jane Birkin

da Cannes

Le pieghe di una New York sofferta e ansimante. Un confine. Una sessualità non accettata che, nello spirito dell'epoca, andava curata. Elettroschock che si sommarono a incomunicabilità con il padre contabile e la madre, una casalinga seriamente malata. Dal destino, Lou Reed ricevette un marchio che ne fece un uomo ruvido con il quale si poteva anche non andare d'accordo. Eppure i Velvet Underground, un gruppo che ha segnato gli anni Sessanta e la cultura pop di Andy Warhol dal quale è stato influenzato e valorizzato, è nato sui banchi dell'università di Syracuse, dall'incontro fra un uomo finito prima ancora di cominciare - Lou Reed, appunto - e un altro che aveva fatto parlare di se per un'insolita maratona. Aveva suonato il piano per 18 ore ed era stato invitato in tv con l'unico ascoltatore resistito tutto il tempo.

Si chiamava John Cale e con il suo compagno di studi ebbe un rapporto di amore e odio. Strade che si allontanano e all'improvviso si ritrovano. Per poi lasciarsi ancora. E definitivamente, nel 2013, quando Reed muore e John Cale commenterà che «il mondo ha perso un compositore superbo e un poeta, io non ho più il mio compagno di scuola». Sono stati questo i Velvet underground. E se la musica arriva fino al cielo, come ebbe a scrivere Baudelaire, per quella che parte dal sottobosco metropolitano la strada è lunga. Anzi. Lunghissima. A raccontarla è Todd Haynes, regista appassionato di musica, che nel 2007 firmò Io non sono qui, dedicato a Bob Dylan. A Cannes ha presentato fuori concorso il film che rimette a posto i pezzi di quel mosaico di cui non fanno più parte in troppi: The Velvet Underground. Lou Reed se n'è andato nel 2013, Sterling Morrison nel 1995, Nico nell'88 e Angus Mac Lise addirittura nel '79. La morte, si sa, consegna al mito e nulla cancella quell'incrocio di culture che nel 1966 fecero confluire i passi dei Velvet Underground con quelli della Factory di Andy Warhol che, per loro, disegnò la più celebre delle copertine di allora. La banana. Quella con cui vennero immortalati gli stranamente ridanciani componenti della band, compresa la «sacerdotessa delle tenebre», la modella che il padre della pop art presentò a Lou Reed. Un incrocio di forme diverse di genialità e pansessualità. Così almeno il cantante definì se stesso lasciando che a parlare fossero i fatti. Un matrimonio con Laurie Anderson. E turbe adolescenziali mai completamente smaltite.

Andare d'accordo con lui non è stato facile per nessuno ma «ognuno ha imparato dall'altro» ha confidato Maureen Moe Tucker, batterista del gruppo. Un complesso, come si definivano allora, in cui andare e venire era abitudine corrente. Reed licenziò l'amico John Cale. Sterling Morrison prese la strada dell'insegnamento, diventando un docente di Letteratura medievale, prima di buttare il dottorato alle ortiche per fare il capitano di un incrociatore. Nico piantò tutti in asso dopo i litigi con Lou Reed e quest'ultimo lasciò la tolda rock nel '70 per gli attriti con Steve Sesnick, l'agente che impose il nuovo bassista Doug Yule.

Andò come andò. Nessuna decisione si rivelò irreversibile. E nacquero altri capolavori. Sunday morning, Venus in furs e Heroïn del repertorio Velvet videro l'affiancarsi di Walk on the Wild Side e Berlin, concept album in stile rock progressivo, firmati dal solo Lou Reed, sponsorizzato in questa fase da un altro uomo di confine della pansessualità. David Bowie. L'irrequietudine che ha accompagnato la parabola dei Velvet, l'unione e il distacco da Andy Warhol, la violenza di tanti brani e il disagio di tanti concerti è ben resa nel film documentario di Todd Haynes con una regia brillante e sequenze brevi, interventi frequenti dei testimoni di quella stagione lontana e filmati di repertorio con audio originale di personaggi che oggi non possono più parlare.

Ben altra musica, tutta familiare, con l'esordio alla regia di Charlotte Gainsbourg, in passerella con mamma Jane Birkin per presentare Jane par Charlotte e incassare una valanga di consensi e occhi lucidi di una platea che ha applaudito la figlia cantante e attrice ma anche la mamma, simbolo di un'epoca fatta di contestazione e di fiori nei vostri cannoni e pure dell'amore poetico e distruttivo ma plastico e idealizzato con Serge Gainsbourg, unico vero grande assente di questo quadretto familiare, di cui fanno parte anche il marito e i figli di Charlotte nel documentario che in realtà è una lunga chiacchierata con la madre, senza veli e senza pudori. Un po' come è stata la vita sentimentale di Jane Birkin tra disgrazie e intensi amori.

L'esordio nella «swinging London» a 17 anni, seguendo le orme della madre e trovando un compositore, John Barry, dal quale ebbe una figlia, poi morta tragicamente. Fino al legame con Serge Gainsbourg e quella canzone diventata mito perché segnava un cambio di costume. Je t'aime moi non plus. Cronaca di un amplesso e di corpi nudi. Orgasmo e sogno.

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