«Tempo, chiedo solo tempo, che allontani da me questa passione e mi dia pace: finché il destino mi insegni a sopportare il dolore della sconfitta». Le impetuose parole dell'«infelice Didone» che, poco dopo, si toglierà la vita pronunciando un altro, scintillante verso («Moriamo senza vendetta, ma moriamo»), rappresentano una delle più incantevoli contraddizioni di Virgilio: un poeta che, come spiega con precisione Mario Lentano nel suo Virgilio (Salerno, pagg. 236, euro 22), condanna l'amore «spietato» in molti suoi versi, ma riesce a tratteggiare una delle più sconvolgenti incarnazioni del sentimento: una donna che «brucia consunta dal suo fuoco», con la fiamma che «le divora le tenere midolla», che «arde ed erra furiosa, come una cerva incauta», fuori di sé, «folle d'amore, l'anima smarrita, eccitata come una Menade», che vuole illudersi di poter «sopportare un dolore che ha saputo prevedere», ma è «vinta dal dolore», mentre sovrasta il «pio» Enea; un eroe poco ardente e spesso incompreso, ma che obbedisce solo al suo destino, che è il suo «amore» e la sua «patria»: fonderà Roma, la città caput mundi, ma lascerà morire l'amore e la donna che ispirerà Marlowe e Purcell.
Virgilio, però, non è uno dei più grandi poeti della storia solo per l'Eneide, che fu pubblicata postuma contro la sua volontà e la cui revisione accelerò probabilmente la morte, forse provocata da un viaggio verso la Grecia e l'Asia Minore intrapreso per vedere i luoghi dove si svolge una parte del poema; Virgilio, «che leccava i suoi esametri finché non gli fossero sembrati perfetti» - spiega Lentano - è un grande poeta anche per le Bucoliche, scritte tra il 42 e il 39 a.C.: un genere che aveva il suo modello nel greco Teocrito, ma che lui modifica e interpreta con dolce malinconia, scegliendo di contrapporre alla violenza delle guerre civili, degli esili e delle confische un'«Arcadia dello spirito», dove la natura è consolazione, ma è, più di ogni cosa, un paese dell'anima, di cui rispecchia soprattutto ombre e inquietudini: il pastore Melibeo ha perso le sue terre e non potrà più cantare le sue canzoni o pascere le caprette, mentre Titiro gli risponde che «qui, questa notte, potevi almeno risposare insieme a me, sopra le verdi frasche»; i campi, «le dolci mele, le tenere castagne» sono una consolazione, proprio come lo è la poesia, ma dai monti «scendono sempre le ombre». La malinconia e la nostalgia ritornano in ogni ecloga: come nella nona in cui, tra distese di silenzio in cui cadono i mormorii del vento, il vecchio Meri lamenta che «il tempo porta via ogni cosa, anche il ricordo: quando ero giovane, passavo le lunghe giornate cantando. Ora ho scordato molte canzoni, e anche la voce è fuggita».
Dopo le Bucoliche vengono le Georgiche, dedicate alla celebrazione del lavoro nei campi e scritte per obbedire al «non indulgente volere» di Mecenate, deus ex machina della vita intellettuale alla corte di Ottaviano Augusto che con fiuto eccezionale aveva radunato intorno a sé un cenacolo di poeti come Orazio, Properzio, e, appunto, Virgilio.
Che nelle Georgiche celebra l'età dell'oro raggiunta con Ottaviano, inserendosi nella propaganda augustea, ma non dimentica di tratteggiare lo scorrere del tempo e i danni del «cieco», «dolce» amore, che fa precipitare uomini e animali nella follia: perché «fugge senza ritorno il tempo, mentre giriamo intorno ad ogni cosa catturati dall'amore».
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