I libri passano senza lasciare traccia, e di norma la fortuna cui possono aspirare è che almeno una persona si possa dire sinceramente, onestamente colpita dalle parole lette, e le possa tenere in cuore per migliorare o quantomeno per confortare i propri giorni precari, spesso bui. Ma qualche libro oltrepassa questa zona grigia. Si tratta di quei libri di cui nessuno, dopo averli letti, può dire «ho perso il mio tempo», libri necessari: libri il cui compito è di ricordarci che noi siamo non tanto ciò che mangiamo ma piuttosto ciò che dimentichiamo, perché essere umani vuol dire stare attenti, vigili come le scolte che vegliano nella notte, mentre la distrazione è la regola dei nostri giorni.
Uno di questi grandi libri è Il fiume della vita di Eugenio Borgna (Feltrinelli, pagg. 190, euro 16). Il vivido ricordo dell'infanzia con i suoi sogni, le sue vacanze al mare e la sua solitudine essenziale. L'adolescenza trascorsa sui monti, durante la guerra, sotto la guida di una splendida madre e delle sue parole, mentre il padre - grande avvocato - combatte in difesa della libertà di tutti. Il difficile orientamento nel mondo degli studi, fino all'approdo in psichiatria al seguito di maestri illustri. E poi, sessant'anni di lavoro, a stretto contatto con la malattia mentale, nei manicomi, nelle strutture ospedaliere, a casa propria. E l'insegnamento universitario, da cui usciranno alcuni tra i maggiori psichiatri italiani.
Eugenio Borgna è una delle figure cardine della cultura italiana. Per tutta la vita, il suo impegno con la sofferenza psichica si è incrociato - non programmaticamente ma per destino - con la bellezza: l'arte, la musica, la poesia, il romanzo. Nell'arte e nella letteratura, Borgna trova non solo una consolazione, ossia una compagnia nella solitudine, ma l'inattesa risonanza che, sola, poteva permettere all'esercizio della psichiatria di distendersi, di realizzarsi pienamente: l'eco, cioè, che intercorre tra il grido doloroso del malato e la voce di un poeta come Leopardi, o Rilke, o di un romanziere come Dostoevskij.
Voci ultimative, voci definitive come è definitivo il dolore più acuto, che non cerca spiegazioni teologiche ma invoca un senso qui e ora. Questo è il compito spropositato dello psichiatra, un uomo che non può entrare in rapporto con il dolore di un altro senza far proprio quel dolore. E la poesia, sostenuta dalla fede, abitua la coscienza di chi s'incarica della cura a quell'azione fondamentale, che è l'ascolto. Nessuno può dirsi estraneo al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: ma allo stesso modo, proprio perciò, nessuno può sentirsi estraneo alla voce del dolore e al suo enigma, che nel malato tende a scendere in profondità, fino a sottrarsi - come nel caso della schizofrenia - ad ogni possibile vista. Ma anche in questi casi estremi, dove la parola non può più nulla, permane il linguaggio del sorriso, delle carezze, degli abbracci. La psichiatria non può ignorare nemmeno questa estrema, apparentemente futile forma di comunicazione.
Borgna la chiama «psichiatria gentile». Gentile. Una parola di cui abbiamo perso le tracce, di cui ignoriamo la terribilità. È quello che Petrarca chiama «spirto gentil», espressione migrata poi nelle note della Favorita di Gaetano Donizetti. È quello che Michelangelo, già anziano, invoca nei versi immortali: «Ma che poss'io, Signor, s'a me non vieni/ coll'usata, ineffabil cortesia?». Gentilezza, cortesia. Parole che non suggeriscono banali attitudini condiscendenti, ma descrivono piuttosto un'azione fondamentale: quell'essere «qui-e-ora» e, al tempo stesso, sempre in ascolto di altro, che definisce in modo acuto l'umano. L'uomo è ascolto, è gentilezza. «Non è possibile - scrive Borgna - fare psichiatria se non ci si educa a nutrire la nostra vita di ascolto e di gentilezza, di saggezza e di tenerezza, e anche ad abdicare ad ogni forma di noncuranza e di indifferenza, di freddezza emotiva e di distratta lontananza...». E ancora: «Non dovremmo mai dimenticare (...) che senza analizzare cosa accade in noi, nella nostra vita emozionale, nulla sapremmo cogliere delle emozioni dei pazienti, e delle cose da dire loro».
Da queste parole, ripetute in mille suggestive varianti nel corso di tutto il libro, si evincono alcune costanti antropologiche che vanno ben al di là della deontologia professionale: da un lato, è necessario lasciarsi educare, perché l'ascolto e la gentilezza non appartengono all'istinto, e vanno coltivate; dall'altro, occorre abdicare da quella distrazione, da quella sufficienza, da quella prosopopea che ci fanno re del nostro piccolo mondo, sempre al riparo delle nostre teorie, dei nostri discorsi, delle nostre sicurezze. La psichiatria è azione comunitaria, un cammino sempre «aperto alla speranza» sui sentieri del dialogo e del linguaggio, un riannodarsi di parole e sussulti dell'anima (che sono forse la stessa cosa) intorno a un nucleo di dialogo, di attesa, di ricercata empatia. Senza speranza non ci sarebbe cura, non ci sarebbero parole. La follia, dice Borgna citando l'amato Thomas Mann, «è parola mite e musicale». Perciò la psichiatria non è un mestiere ma un modo di stare al mondo: quel modo che sa di non poter evitare le trafitture, le ferite che azzerano i nostri discorsi e li fanno ricominciare da capo ad ogni incontro, ad ogni scontro con chi è diverso da noi, con chi soffre le pene dell'inferno senza averne colpa, con chi, dal fondo del suo inferno, ci rende impossibile pensarci come persone «a posto».
Il fiume della vita non è perciò solo la testimonianza di un grande psichiatra ma un inno a tutto ciò che scartiamo, considerandolo inutile per la costruzione di una vita degna di essere vissuta: la fragilità, la
debolezza, la dolcezza, la gentilezza, il silenzio, la malinconia. Così scartando, finiamo per rimuovere il dolore e la morte: al punto che, quando ci si presentano, ci scopriamo senza parole per dirle, senza occhi per guardarle.
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