Il film del weekend: "Gravity"

Novanta minuti visivamente indimenticabili di lotta per la sopravvivenza nello spazio profondo, che nascondono simbolismi universali

Il film del weekend: "Gravity"

Dopo una gestazione lunga e difficoltosa, è arrivato nei cinema "Gravity", il nuovo film di Alfonso Cuarón (già regista di "Y Tu Mamá También", "I figli degli uomini " e "Harry Potter e il prigioniero di Azkaban").

È una pellicola diretta in modo magistrale e di forte impatto visivo che, grazie a virtuosismi tecnici senza precedenti, fa vivere la viscerale esperienza di trovarsi nello spazio profondo. La trama è la più semplice e lineare possibile: l'astronauta Matt Kowalsky (George Clooney) sta portando a termine la sua ultima missione assieme all'inesperta Dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock); a causa di un'improvvisa pioggia di detriti, i due assistono inermi all'esplosione del loro shuttle e restano bloccati nel vuoto siderale, privi di collegamento con la base e con una scarsa riserva d'ossigeno. Dovranno ingegnarsi per sopravvivere il tempo necessario a tornare, in qualche modo, sulla Terra. Era dai tempi di "2001 Odissea nello spazio" che un'ambientazione spaziale non affascinava con tanto avvolgente eleganza.

Cuarón, che ha scritto la sceneggiatura con il figlio maggiore, Jonás, si conferma uno dei registi più dotati in circolazione; nessuno come lui sa piegare le meravigliose possibilità tecniche oggi esistenti, alle esigenze della propria immaginazione.

Il film, fatto di lunghi piani-sequenze alternati a primissimi piani, è incredibilmente realistico e ci si dimentica da subito che quanto si vede sia frutto di effetti digitali; ogni tanto si presentano alcune illogicità e ingenuità che di scientifico hanno ben poco, ma non minano la bontà di quella che è un'avventura cinematografica ipnotica e poetica al tempo stesso, in cui bellezza e terrore si mescolano di continuo.

Grazie a fluidi movimenti di macchina, tanto inventivi e artistici quanto funzionali ed efficaci, e al sapiente uso della cosiddetta "soggettiva", ottenuta posizionando la telecamera nel casco degli astronauti, lo spettatore si immedesima quasi fisicamente nei protagonisti; alle prese con silenzio e buio infiniti, prova il loro stesso invalidante smarrimento, mentre madre Terra troneggia indifferente e bellissima sullo sfondo.

Oltre che un riuscito blockbuster di matrice hollywoodiana, questa è un'opera che contiene qualcosa di universale e potente; la sua è una fantascienza esistenziale in cui, in mezzo a tanta tensione, ci sono momenti contemplativi di forte valore simbolico.

La Bullock è in scena da sola per la maggior parte del tempo e interpreta i diversi stadi di quella che è la gestazione di una nuova se stessa, in navicelle che hanno valenza uterina. Difficile rimanere ignari davanti a scene come quella in cui la protagonista, spogliatasi della tuta, levita lentamente in posizione embrionale in un'assenza di gravità che sembra farle da liquido amniotico. Nel suo caso non si tratta solo di sopravvivere, ma di tornare a vivere lasciando andare un passato drammatico. Ogni percorso intermedio verso la salvezza sembra scandire una vita a sé, come se stessimo osservando le continue trasmigrazioni di un'anima fino al battesimo definitivo della consapevolezza.

Insomma, se la rappresentazione visiva è tipicamente americana e la spalla, George Clooney, è alle prese con un personaggio chiacchierone e gigione anche in situazioni d'emergenza a livelli che lo rendono poco credibile, è alla Bullock che il regista messicano affida temi e sensibilità più latini.

È indubbio che Alfonso Cuarón sia un autore che travalica i confini tradizionali e sperimenta, creando film dotati di una spettacolarità da popcorn così come di sottotraccia filosofica. Da vedere.

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