Per molti è stato il «quinto beatle», ma nei fatti, dopo Lennon & McCartney, ben prima di Harrison e Ringo veniva lui. George Martin, chiamato dai Beatles «Il duca di Edimburgo» per l'aplomb da gran signore(in realtà era figlio di operai). Nato nel 1926, ex aviatore con studi oboe e pianoforte, Martin è l'uomo che nel 1962 ha messo sotto contratto i Beatles per la Emi, attratto dallo sfrontato magnetismo dei quattro, dalla parlantina e dai cappotti di astrakan del manager Brian Epstein, nonostante considerasse almeno in un primo momento, la loro musica «spazzatura».
E dal 1962 al 1970 Martin è stato, di fatto, l'artefice-ombra di tutta la discografia dei Beatles: anche il rivoluzionario Sgt Pepper (1967) è stato in un certo senso un suo esperimento creativo. Martin nei dischi dei Beatles ha suonato a volte il pianoforte, ha scritto quasi tutte le parti orchestrali (uno stile che fa ancora scuola nel pop), ha deciso la playlist del dischi. Ma soprattutto ha curato il suono del gruppo. Le sperimentazioni beatlesiane: dall'orchestra avant-garde di A Day in the life, alle inquietanti voci «al contrario», all'eco sul canto di Lennon, all'uso di strumenti insoliti nella popmusic, sono in buona parte farina del suo sacco. I voli più psichedelici di Lennon e compagnia portano la firma, anche, di questo signore che non ha mai fumato uno spinello in vita sua (più tardi ha commentato: «Forse mi sono perso qualcosa»).
Oggi esce il dvd che racconta la sua storia: con diversi ospiti (tra gli altri Paul McCartney e Ringo Starr), titolo: Produced by George Martin. «Produced» perché di fatto Martin ha inventato la figura del produttore musicale, ruolo fondamentale, ma ancora non troppo noto, nel pop e rock di oggi. Mentre nel cinema il produttore è chi ci mette i soldi, nella musica pop è chi tiene le redini del suono, delle registrazioni e dell'esecuzione del gruppo: una via di mezzo tra un regista, un direttore della fotografia, un direttore d'orchestra, e uno psicologo. Il ruolo è stato definito proprio da Martin coi Beatles. E oggi è ancora più centrale. Un paio di esempi: Amy Winehouse, dopo il quasi-fiasco del primo cd, Frank, è arrivata al successo con Back to black, ma solo dopo l'incontro con Mark Ronson. Michael Jackson ha dato il meglio di sé, da Thriller a Bad, grazie a Quincy Jones.
Ma torniamo a Martin: nel video si racconta come, nel 1964 ascoltato il provino di Can't buy my love, Martin ebbe l'idea di usare il ritornello come inizio del brano: partenza brutale e irrituale ma efficacissima come sanno i beatlesiani. Martin fa anche notare come, per arrangiare Eleanor Rigby, bozzetto quasi dickensiano di Paul suonato per intero da un ottetto d'archi (nemmeno una nota viene dagli strumenti dei Beatles), si fosse ispirato al tipico marchio sonoro delle scene horror di Alfred Hitchcock: con i violini sincopati che ribattono sulla stessa nota, atmosfera che riascoltiamo spesso in tivù, per esempio alle Iene, per sottolineare i momenti di panico dell'intervistato di turno. Interessanti le riprese negli studi di Abbey Road, con i Beatles al lavoro insieme a Martin. Il gruppo rinchiuso per mesi in uno studio senza finestre, asettico, con le pareti da ritinteggiare e perfino il lucchetto al frigorifero: «Non c'era nessuna atmosfera, la dentro, eravamo noi doverla creare» ha commentato più tardi Harrison. Eppure tutta la vis psichedelica, surreale, liberatoria dei Beatles è nata lì.
Altrettanto singolari i rapporti tra Martin e i fab Four: stima e affidamento reciproco con McCartney (a cui Martin produrrà anche due dischi solisti del post-Beatles). Lennon ascoltava molto Martin, salvo scappare via dallo studio lasciandogli compiti impossibili. «Sono sicuro che ce la farai, George», gli disse mentre registravano Strawberry Fields e il buon Martin finì per incollare due versioni del brano, a tonalità e velocità diverse.
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