I massacri, le armi, gli amori: è il Rinascimento di Cacucci

Lo scrittore si mette alla prova con un romanzo storico di grande erudizione. In parte a scapito dell'avventura

I massacri, le armi, gli amori: è il Rinascimento di Cacucci

Nel XVI secolo, più precisamente fra il 1544 e il 1573, due ragazzi dell'isola d'Elba, Lucero e Angiolina, vengono travolti dal vento della storia. Una delle tante razzie turchesche, a opera del Barbarossa, li separa: ferito il primo, lasciato sulla spiaggia per morto, bottino di guerra la seconda. Mentre quest'ultima, portata ad Algeri e messa all'asta, diverrà la favorita del Bey e gli darà un figlio, la sete di vendetta del ragazzo, rimasto orfano, i pirati gli hanno anche bruciato la casa e ucciso la madre, e rimasto solo, ne fa una potente macchina da guerra, temibile spadaccino e soldato di ventura alla ricerca dello scontro con quel nemico che gli ha distrutto la vita. Sono gli anni in cui la minaccia musulmana è un tutt'uno con la storia europea, con l'assedio di Vienna da un lato, Lepanto dall'altro, a sancirne i punti salienti.

Elbano sarà dunque il nome con cui il giovane Lucero si distingue via via che i campi di battaglia ne sanciscono il percorso, errante la sua condizione di sradicato rispetto alla sua terra e ai suoi affetti, e di asociale per l'incapacità di legarsi ai luoghi che il mestiere delle armi nel tempo gli impone: Firenze, Siviglia, Napoli, Malta, la Nueva España al di là dell'Oceano che i conquistadores hanno lasciato in eredità alla loro corona.

È come si vede un campo d'azione vastissimo da raccontare e Pino Cacucci assolve questo compito con le 900 e passa pagine del suo, appunto, L'elbano errante (Mondadori, euro 27), che ha per sottotitolo «Vita, imprese e amori di un soldato di ventura e del suo giovane amico Miguel de Cervantes». Già, perché l'autore si diverte anche a fare incontrare il suo eroe di fantasia con la figura storica del creatore di Don Chisciotte. Del resto, Cervantes fu soldato di ventura, combatté e rimase invalido a Lepanto, venne poi fatto prigioniero dai turchi, languì ad Algeri in attesa del riscatto che lo riportasse in patria, dove infine visse, con alterna fortuna, della propria penna e del proprio genio.

Cacucci è un narratore di lungo corso, a cominciare da quel Puerto Escondido che trent'anni fa lo fece conoscere al grande pubblico, grazie anche all'omonimo film di Gabriele Salvatores. Ha al suo attivo un po' tutti i generi, dal libro di viaggio al giallo, al fumetto, al romanzo storico-civile. Qui fa un doppio salto mortale perché prende di mira un secolo per molti versi distante dalla sensibilità moderna e quindi difficile da maneggiare, specie per chi, come appunto Cacucci, non ha mai nascosto una vena impegnata, sociale e civile, ideologica staremmo per dire, se non fosse che le ideologie del XX secolo sono andate in disarmo e/o in riparazione e per il momento ci si deve accontentare di navigare a vista, senza più bussole con cui orientarsi, se non la propria coscienza...

Il romanzo storico è un campo complesso. Alexandre Dumas, che quel campo ha arato da par suo, era solito dire che la storia fosse «un chiodo al quale appendo i miei libri», ovvero «una bella donna da violentare a patto di farle fare dei bei figli». Era il racconto d'avventura insomma a essere in primo piano, rispettoso sino a un certo punto della realtà e tuttavia coerente e tale da lasciare al lettore la voglia di saperne di più. Il Richelieu o il Mazzarino del suo ciclo dei Moschettieri sono sì di fantasia, ma funzionali rispetto al racconto e quindi coerentemente veri, più veri di quelli realmente esistiti...

Si dirà che all'ottocentesco Dumas erano concesse licenze che un autore novecentesco o post novecentesco che sia, non può più permettersi: il genere si è evoluto, autori e lettori si sono fatti più smaliziati, la tentazione di giudicare il passato con il metro del presente è divenuta più forte, eccetera. Se tuttavia prendiamo un romanziere contemporaneo quale Arturo Pérez-Reverte, il creatore del capitano Alatriste, che Cacucci bene conosce, si vedrà come, grazie alla sua sapienza narrativa, storia e avventura si fondano naturalmente, senza bisogno né di contestualizzare né di spiegare più di tanto.

Uno dei rischi infatti del romanzo storico quando vuole andare in profondità è l'effetto overdose, l'eccesso di informazione per timore di perdersi il lettore, di cui ovviamente chi scrive non conosce la conoscenza in materia e che quindi può ritrovarsi frastornato e privo di riferimenti quanto a esperienze, costumi, stili di vita, modi di dire e di pensare di un passato più o meno lontano. È necessario allora un continuo lavoro di cesello, perché da un lato la costruzione della storia deve avere un ritmo e un'autonomia proprie, e dall'altro ha bisogno di quei minimi accorgimenti con cui l'autore onnisciente semplifica il compito di chi legge, suggerendo, ammiccando, se è il caso sintetizzando.

L'altro rischio connesso è una specie di bulimia colta, un voler inquadrare ogni personaggio, ogni avvenimento, bulimia che spesso è un tutt'uno con il compiacimento autorale: vedete, so tutto, non mi sfugge nulla...

L'elbano errante non è esente da questi rilievi. Che si tratti di un papa, di un trattato, di una battaglia o di un granduca, Cacucci interrompe la narrazione e va dietro alle cause e alle concause, spesso risale negli anni se non nei secoli, a volte si attarda nei particolari. Da un lato c'è da ammirarlo, perché la messe di informazioni offerta al lettore è impressionante, facendone quasi un libro a sé; dall'altro l'impressione è che l'avventura in quanto tale del suo protagonista gli sia come estranea, come se non ci credesse sino in fondo, come se a frenarlo ci fosse un retrogusto moderno, l'idea che un simile tipo umano non sia proponibile, abbia sempre bisogno di essere giustificato e/o spiegato all'interno di una cornice storica la più esaustiva possibile.

Detto questo, il tour de force di Cacucci resta di prim'ordine, per dimensioni, per ricchezza di fonti, per padronanza dell'insieme. Ci sono le armi e ci sono gli amori, ci sono i condottieri e ci sono le fedi religiose, i massacri e i buoni sentimenti. Soprattutto, c'è sullo sfondo un secolo in cui l'Italia è il terreno di scontro, di razzie e di alleanze nonché di conquiste, quel Rinascimento che vede una straordinaria fioritura artistica a braccetto con l'impossibilità a uscire da una sudditanza rispetto a nazioni, la Francia, la Spagna, più avanti quanto a realtà statuale e desiderose di affermare la loro egemonia su un territorio che raccoglieva in sé il senso stesso del mondo classico, ne era se non l'erede il custode. Il risultato è una potente macchina narrativa, in cui i capitoli per esempio dedicati al Nuovo mondo, il Messico, si impongono per la ricchezza dei dettagli e la brillantezza con cui sono raccontati.

Dopo le molte vite da loro vissute, Lucero e Angiolina si rincontreranno proprio ad Algeri, in catene lui, potente, ma odiata donna di potere lei, «la puttana cristiana» che ha saputo imporsi...

Per non fare un torto al lettore, non racconteremo qui quale finale Cacucci abbia in serbo per loro. Accontentiamoci di dire che sapranno dare un senso a quel vento della storia che ancora ragazzi li aveva travolti, e lo faranno senza rimpianti né rimorsi.

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