William Faulkner si riteneva un fallito, James Joyce, se non era ubriaco e si arrampicava sui lampioni, alle cene chiedeva a tutti di conversare mentre lui rispondeva solo «sì» o «no», Henry James spesso delirava e dettava lettere che firmava Napoleone, Arthur Conan Doyle, inventore di Sherlock Holmes, si diede allo spiritismo e risolse anche diversi casi di delitti rimasti irrisolti anche fuori dalle pagine. Robert Louis Stevenson diede fuoco a dei boschi in California e frequentava gli ultimi degli ultimi e malgrado il successo dei suoi libri, come L'isola del Tesoro o Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde,vestiva come l'ultimo dei mendicanti, Thomas Mann era «tormentato dal sesso» e dalla «ipocondria», mentre Nabokov, oltre ad aver scritto Lolita, malgrado fosse conosciuto come un misantropo, si apriva soltanto con le ragazzine, mentre Arthur Rimbaud era «infrequentabile» perché «non si cambiava mai d'abito e bevendo continuamente ingiuriava sempre tutti», e Yukio Mishima odiava talmente il genere umano da avere avuto più volti istinti cannibaleschi.
Sono queste soltanto alcune delle Vite scritte da Javier Marìas (Einaudi) il quale racconta i maggiori narratori e poeti di sempre trattando «questi letterati come personaggi da romanzo, che poi probabilmente la maniera in cui tutti gli scrittori intimamente desiderano vedersi trattati, al di là della fama e dell'oblio». E il suo intento è perfettamente riuscito in questi venti ritratti che hanno la leggibilità narrativa di racconti ma coniugata a una ricerca bibliografica rigorosa. Più che un libro Marìas lo scrittore autore di capolavori come Domani nella battaglia pensa a me, e dei recenti Così inizia il male e Berta Isla (tutti tradotti in Italia da Einaudi) ci consegna una galleria che non ha nulla di voyeuristico - come spesso accade raccontando i lati più nascosti degli artisti-, non ha nulla delle agiografie che vanno oggi per la maggiore dove si incensano oltre ogni merito gli scrittori (basti pensare alle biografie di Salinger o di Philip Roth).
Marìas fa ciò che il grande e purtroppo ancor misconosciuto Giovanni Baglione nel 1640 è riuscito con il suo Le Vite dei pittori, scultori e architetti molto più interessante del più famoso Giorgio Vasari con il suo Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani dei tempi nostri (pubblicato nel 1540): perché Baglione ci fa scoprire la vera vita degli artisti mentre Vasari è più un pubblicitario, più un testimonial, come si direbbe oggi. Marìas è il Baglione della letteratura: perché questo libro è un capolavoro (anche grazie alla traduzione di Glauco Felice, uno dei più importanti ispanisti italiani del Novecento). È una raccolta che incuriosisce anche il lettore abituato ai bestseller e soprattutto ci fa venire la curiosità di (ri)leggere dei grandi classici oggi più citati che letti.
Proposta in una nuova edizione da Einaudi (Vite scritte uscì in prima edizione nel 2004 e da anni è fuori catalogo) nell'introduzione lo scrittore spagnolo ci avverte, pur con tono ironico, che «la maggior parte degli scrittori sono stati individui sventurati; e sebbene non lo fossero più di ogni altra persona di cui conosciamo la vita, il loro esempio non inviterà oltre misura a seguire il sentiero della letteratura». Si inizia con William Faulkner, Premio Nobel nel 1949, che scrisse il romanzo Mentre morivo nell'arco di sei settimane «nelle più precarie delle condizioni: mentre lavorava di notte in miniera, con i fogli appoggiati sulla cariola rovesciata e facendosi luce con la flebile lanterna del suo elmetto polveroso». Poi divenne responsabile dell'ufficio postale dell'Università del Minnesota ma fu licenziato perché «non gradiva essere interrotto nella lettura» e scrisse ai genitori disperati dal suo precariato monetario che «non era disposto ad alzarsi di continuo per occuparsi dello sportello e mostrarsi gentile per chiunque possedesse cinque centesimi per comprare un francobollo». Da lì nacque la sua avversione per la corrispondenza: alla sua morte furono trovate migliaia di lettere mai aperte, tranne quelle degli editori che Faulkner «scuoteva per vedere se spuntava un assegno» e malgrado la sua eleganza nel vestire, era soprannominato Il Conte, dilapidava ogni soldo tra scommesse sui cavalli e alcolici. Joseph Conrad, l'autore di libri eterni come Cuore di tenebra, era «irritabile e il suo stato naturale era di un'inquietudine che rasentava l'ansietà» mentre James Joyce era «un uomo sospettoso, solitario, insoddisfatto» malgrado il suo Ulisse sia entrato nella storia della letteratura. Era alcolizzato e un sessuomane, tanto che costringeva la moglie a ingrassare per essere picchiato con più forza, era coprofago e per tutta la sua vita considerò «l'infelicità come il peggiore dei vizi». Arthur Conan Doyle per anni ricevette lettere indirizzate al suo Sherlock Holmes con le richieste di indagini poliziesche che lui inventava solo sulla carta ma i lettori lo confondevano con il protagonista dei suoi libri. In diversi casi, però, risolse misteri inquietanti e al contempo, ricco grazie alla fortuna editoriale del suo Holmes, aiutava tutti, specie i fratelli, firmando «assegni in bianco». Robert Louis Stevenson «faceva scappare i passanti che lo prendevano per un mendicante» vista la sua non cura dell'aspetto e dell'abbigliamento. Thomas Mann, invece, era una sorta di malato immaginario, sempre timoroso che lo colpisse la dissenteria tanto che ne scriveva compulsivamente sia nelle lettere che nei saggi con l'elenco quotidiano delle condizioni del suo intestino.
Nabokov è lo scrittore che meglio sintetizza le condizioni dell'artista: «Penso come un genio, scrivo come un autore raffinato e parlo come un bambino» e detestava Dostoevskij che considerava «un sensazionalista di scarso valore, inetto e volgare».
Tanti altri scrittori e scrittrici (unico punto debole del libro: le donne sembrano essere state inserite più per un obbligo editoriale da «quote rosa») li lasciamo scoprire al lettore. Tutti raccontati con l'avvertimento che i libri che leggiamo ci risultano «più lontani e incomprensibili quando non possiamo dare un'occhiata alle teste che li hanno composti».
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