Insonnia, noia e richiamo della morte. Ecco la metafisica dello "stilita" Cioran

Un ritratto esistenziale del pensatore. Fra disperazione, disincanto e scetticismo

Emil Cioran ha osservato la vita a debita distanza, quasi da stilita che sta in cima a una colonna e assume come principio etico una lacerante battaglia quotidiana per non essere nulla e non alimentare alcun senso di appartenenza. Furono in molti a tentare strade analoghe. Ernst Jünger, che Cioran aveva conosciuto a Parigi nel 1976, era passato al bosco tentando di penetrare il reale attraverso ogni sorta di avvicinamento, dalle trincee delle guerre mondiali alle droghe fino all'entomologia. Constantin Noica si ritirerà sulle montagne della Transilvania per condurre una vita spartana. Cioran... che viveva sotto una costante inclinazione apocalittica, riparerà invece in una mansarda in un palazzo di Parigi, ma sempre ai margini dell'esistenza per preservare il suo pensiero dalla contaminazione ed esercitare una metafisica del fallimento.

Come scrive Aldo Marroni in E.M. Cioran, lo stilita senza colonna (Mimesis, pagg. 114, euro 12), lo scrittore rumeno è uno stilita in eterna sospensione sul nulla che si pone «nella condizione di una enigmatica partecipazione impartecipe». Un meteco che non rinuncia a scendere per le strade cittadine di una metropoli che a quel tempo viveva la sua età dell'oro, ma solo per essere il fustigatore di ogni finzione. Molto simile al Tonio Kröger di Thomas Mann, Cioran è un ribelle incapace di ribellione («non sono un militante. Ho denunciato parecchie cose, ma con il sentimento dell'irreparabile») che esercita però la sua metafisica attraverso tre elementi del tutto personali: l'insonnia che eleva a forma di conoscenza, la noia e il costante pensiero del suicidio che nutre come forma suprema di libertà. L'insonnia è infatti supplizio ma anche dispositivo necessario perché produce un ritorno alle origini, quasi al mito, e lo riporta all'alba degli esseri. La mancanza di frattura tra veglia e sonno gli impedisce di imbalsamare l'esistenza dentro quella che ritiene la superflua verbosità e «l'universo pleonastico» della filosofia («i grandi sistemi non sono in fondo che brillanti tautologie»). Proprio perché vuole demolire tutto e ritornare all'origine, si tiene il più lontano possibile dall'autoreferenzialità dei sistemi filosofici e culturali che accusa di aver messo al bando la disperazione, il disincanto e lo scetticismo. Li vuole confutare integralmente perché vorrebbero costringerci nella gabbia dell'idea di progresso e del perfezionamento infinito dell'umanità che ha un solo unico scopo: nascondere la paura della morte. La modernità ha infatti una viscerale ossessione della morte ma Cioran, iconoclasta infuriato contro le frivolezze dell'esistente, considera la morte come atto di ribellione. Da questo punto di vista l'insonnia dello spirito e del corpo gli fornisce quella perizia intellettuale e sentimentale per andare al fondo (e quindi indietro nel tempo, all'anno zero dell'umanità), sfaldare la superficie e tentare l'avvicinamento con l'elementare. Andare al fondo significa comprendere l'insensatezza della storia e della filosofia che tentano di curare la nostra presenza con l'inganno dell'escatologia, mentre l'esperienza del tempo si riassumerebbe «in un eterno presente senza scopo».

Nessuno di noi saprebbe vivere senza meta. Questo il mantra di Cioran che imprime a fuoco sulla propria carne già a ventidue anni, quando scrive Al culmine della disperazione.

Ma è anche la sua personale forma di anarchismo. Cioran resta infatti un ribelle metafisico ma senza ribellione, un apolide che non aderisce al tempo e che, grazie al costante dialogo con la morte, trova la ricetta per sopportare l'esistenza.

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