Irene Brin, ci salveranno le vecchie zie (molto snob)

Pubblicato il primo e unico romanzo (incompiuto) della grande giornalista "inventata" da Leo Longanesi

Irene Brin, ci salveranno le vecchie zie (molto snob)

Nel 1937 Maria Vittoria Rossi aveva appena compiuto 26 anni. Era un mondo diverso. Non più bello o più nobile o più fortunato. Semplicemente diverso e a rivederlo oggi pare siano trascorsi secoli. «Si viveva come si poteva la nostra belle époque casereccia, i nostri anni ruggenti alle vongole» scriverà Cesare Barzacchi su Il Borghese. Un mondo che aleggia ancora nei nostri ricordi, come un brodo primordiale, a ricordarci quello che siamo stati. Era il mondo in cui «la lira, il matrimonio è la cultura non avevano ancora subìto gli effetti della svalutazione», ironizzava Leo Longanesi.

Proprio a lui, nella tiepida primavera romana di quell'anno Giovanni Ansaldo segnalò la giovane Maria Vittoria Rossi (Roma, 1911 Bordighera, 1969), sua collaboratrice a Il Lavoro di Genova, adatta - a suo parere - per sagacia e ironia a coprire la rubrica di cronache mondane «Giallo e Rosso» del nuovo settimanale Omnibus. Maria Vittoria Rossi divenne così Irene Brin. Il suo nome fu un'invenzione tutta longanesiana che le plasmò la vita: «Io non mi chiamo Irene Brin ma così figuro in contatti, elenchi telefonici, discorsi familiari. Io sono un'invenzione di Longanesi».

In quello stesso anno Maria/Irene sposa il giovane ufficiale Gaspero del Corso. Fu un colpo di fulmine, scoccato dopo aver parlato tutta la sera della Recherche di Proust a un ballo romano dell'Excelsior. Di quegli anni è anche il romanzo (incompleto) Le perle di Jutta (Clichy, pagg. 146, euro 14; a cura di Tommaso Mozzati e Flavia Piccinni), ritrovato dal nipote in un baule della casa di famiglia a Sasso di Bordighera e rimasto inedito per oltre 80 anni, fino a oggi. Primo e unico romanzo firmato dall'autrice, è ambientato in una località di villeggiatura alla moda, agli inizi del Novecento, fra magnati facoltosi, nobili decaduti, cinici gigolò...

Nel 1939 chiudeva Omnibus. «È stato Leopardi!» diceva Longanesi inforcando gli occhiali d'oro delle grandi occasioni e facendo appello a Mussolini dopo che tutta Napoli, federale in testa, aveva chiesto la chiusura del settimanale con vibrante indignazione, quando Savino vi scrisse che fu la poca pulizia delle caffetterie partenopee ad aver mandato al Creatore il poeta di Recanati. Non ci fu nulla da fare: l'avventura era finita. Così Irene decise di raggiungere il marito sul fronte militare dei Balcani come inviata di costume per alcune riviste: Documento, Storia e Bellezza di Gio Ponti. Partì da sola dopo i bombardamenti di Belgrado e mantenne un recapito italiano alla «Pasticceria Piva» di Zara che raggiungeva con ogni mezzo per trasmettere i suoi articoli (racconterà quei giorni nel 1943 in Olga a Belgrado).

Rientrò a Roma nel 1943, dopo l'armistizio, con un marito diventato ufficialmente disertore nascosto in casa insieme a una quarantina di compagni d'armi sbandati che sfuggivano ai rastrellamenti tedeschi. Tutte le redazioni erano passate sotto il controllo tedesco e l'unico sostentamento della famiglia allargata fu un lavoro di traduttrice dall'editore Fonseca - un romanzo a settimana per 3mila lire - poi da commessa alla libreria d'arte «La Margherita».

Intanto arrivarono gli americani e, mentre il marito - sotto il falso nome di Ottorino Maggiore - scovava libri e disegni per i nuovi clienti, Irene seppe cogliere il momento di una vita che stava diventando dolce: «Capii che Roma era diventata il centro del mondo e che valeva la pena di partecipare all'occasione». Insieme aprirono la galleria d'arte «Obelisco» in via Sistina, che divenne uno dei centri di mediazione culturale della nuova Roma ora assediata da attori, registi, seduttori, artisti, scrittori e da un'irresistibile «americanità». In quegli anni la Brin cominciò a collaborare con La Settimana Incom. Con lo pseudonimo della Contessa Clara Ràdjanny von Skèwitch - anziana nobildonna mitteleuropea fedele allo stile Balenciaga - dispensa consigli di moda e buone maniere con disarmante ironia, contribuendo a forgiare l'immaginario femminile della nuova e «caciarona» borghesia italiana, di quell'inossidabile Italietta longanesiana che «continuava a godersi il suo tradizionale posto al sole contenta di fecondare vasetti di gerani». Il suo personaggio, ironico e raffinato, ottiene subito un travolgente successo fidelizzando i lettori; parodiato in radio da Alberto Sordi nel «Conte Claro» e interpretato in Piccola Posta di Steno da Franca Valeri che da lei mutuerà anche i tratti della Signorina Snob.

In fondo, lei stessa era un personaggio. Mentre passeggiava a New York in Park Avenue con un tailleur di Fabiani venne fermata da un'anziana signora: «Dove l'hai preso? Di chi è?» le chiese. Era Diana Vreeland, caporedattrice di Harper's Bazaar.

Con la rivista, Irene ebbe una lunga collaborazione diventando promotrice del talento sartoriale italiano aprendo la strada oltreoceano al «made in Italy» contro la predominanza della moda francese. Fu la prima fashion editor italiana, oggi protremmo dire la prima influencer.

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