Quando si rastrellano vecchie interviste per pubblicarle in volume, è assolutamente alta la possibilità che la pazienza del lettore possa deflagrare nel giro di pochi minuti e che, avvinto dalla noia, egli possa abbandonare il testo già alla seconda pagina. L'unico modo per non cadere in un simile tranello è accertarsi che gli interlocutori chiamati in causa siano di altissimo livello, siano stati imbastiti scambi di vedute su un piano meta-politico e perciò tralasciati quelli sulla contingenza storica, e non manchino gustosi aneddoti.
La casa editrice Solfanelli ha mandato alle stampe Colloqui (pagg. 150, euro 12), una perla sotto il profilo giornalistico e culturale che segue tutte queste regole. Gennaro Malgieri raccoglie infatti talune sue interviste, realizzate tra gli anni settanta e gli inizi degli anni novanta, ad eretici del pensiero. Da Francisco Elias de Tejada a Vittorio Vettori, e poi Vintila Horia, Julien Freund, Maurice Bardéche, Ettore Paratore, Raimondo Spiazzi, Ernst Jünger, A. James Gregor, Andrej Sinjavskij, Massimo Fini, Alain de Benoist; e con loro, un florilegio di temi, dalla biopolitica al ruolo della tecnica, dal revisionismo storico all'antropologia culturale. Di conseguenza, non un banale rifugiarsi in vecchi arnesi arrugginiti o rimestare in questioni superate dal tempo, ma serio tentativo di affrontare da ogni angolo prospettico la crisi della civiltà e l'avvento del postmoderno. Perché il mondo è radicalmente cambiato negli ultimi decenni e i nostri tentativi di interpretarlo con categorie politiche, legate sempre e solo al contingente, appaiono oramai goffi. E anche la nostra ribellione nei confronti di questo indigesto pensiero unico rischia di declinare in demagogia e di alimentare una critica chiassosa e disorganizzata, priva di una reale forza sovvertitrice. Al contrario, proprio in quelle risposte c'è una via di fuga dal momento che, oltre a raccontare il novecento col suo carico di questioni irrisolte, si disvelano visioni profetiche sulla deriva nichilista.
Siamo infatti di fronte a personalità che scelsero di sottrarsi dalla tirannia del nulla e della folla inconcludente, e seppero «decifrare quanto stava accadendo e, soprattutto, quanto sarebbe accaduto». Sul punto è chiarificatrice una risposta di Jünger: «Nella mia vita sono esistiti ed esistono soltanto avvicinamenti. Se, infatti, si cerca la stella in tutto il suo splendore, non la si troverà mai sulla terra». Ecco perché, per questi eretici, passare al bosco non rappresentò l'abbandono verso uno sterile e snobistico isolamento estetizzante ma un appartarsi nel mondo.
Malgieri incontra Jünger a Palermo, nel 1986: «tre giorni punteggiati da riflessioni, racconti, aneddoti e giri per la città. La sosta davanti alla tomba dell'Imperatore Federico II Hohenstaufen proprio mentre un'orchestra stava provando una Sinfonia di Gustav Mahler, uno dei musicisti più amati da Jünger». È in quel frangente che lo scrittore tedesco gli confessa quanto la disillusione nei confronti del mondo moderno possa essere avvalorata anche da impalpabili particolari: «La prima volta che venni in Sicilia l'Isola era abbastanza simile a quella che vide Goethe. La seconda volta già mi sono sentito perduto perché laddove c'era una capanna sorge un albergo e colui che era un pastore s'è mutato in servo. Tutto questo non mi piace».
Colloqui che mostrano visioni prospettiche diversificate, eppure tutte orientate allo smascheramento della deriva nichilistica. È del 1976 l'incontro con Francisco Elias de Tejada, «battagliero nel rivendicare i valori della Chiesa di sempre», a margine di un convegno tomista. Ma feconde anche le due interviste ad Alain de Benoist. La prima (ottobre 1979), proprio al debutto della Nouvelle Droite che fu laboratorio analitico tra i più originali. La seconda, nel luglio 1989, in cui, solcando i mari della geopolitica, si arriva ad un tema che infiamma i nostri attuali dibattiti: «È chiaro che l'Europa che si sta costruendo attualmente ha poco da spartire con l'Europa ideale di cui il modello romano-imperiale rappresenta per me una sorta di archetipo».
A consuntivo, parrebbe però inevasa la questione di sempre; vale a dire, qual è il modo per tirarsi fuori da questa deriva deterministica? La risposta la fornisce Vintila Horia, nell'intervista del 1978: «prevedere la storia di domani sembrerebbe possibile sotto il profilo macrocosmico o statistico o dei grandi numeri, sarebbe dunque facile conoscere il volto del futuro: invece non è così, perché in questa tranquilla evoluzione interviene sempre un elemento di incertezza che è il microcosmo, cioè l'individuo».
Ecco lo snodo: la risposta risiederebbe sempre nel singolo che fa conoscenza del mondo senza abbandonare le sue posizioni.
E infatti, Horia torna al Trattato del ribelle e lo cita: «anche in situazioni di omogeneità come in Italia oggi il 2 per cento della eterogeneità può essere sicuro di resistere e giocare un ruolo importante, perché esso rappresenta quello che noi chiamiamo normalità».Solo così si può chiudere il cerchio.
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