Dopo un capolavoro in cui, in oltre quattromila pagine, hai descritto ogni dettaglio della tua esistenza, non certo facile, visto che il capolavoro in questione si intitola La mia battaglia (Feltrinelli), di che cosa puoi scrivere ancora? In effetti, in qualche intervista, Karl Ove Knausgard aveva dichiarato che non avrebbe più messo mano alla penna, perché ormai aveva detto ciò che aveva da dire in quei sei volumi. E invece, per via di un fagiolino che spunta all'improvviso nella pancia della moglie Linda (che ormai tutti i suoi lettori conoscono fin troppo bene, e il troppo è dal punto di vista di Linda, ovviamente), Knausgard scopre che a 45 anni diventerà papà per la quarta volta, e inizia a scrivere alla nascitura.
È uno Knausgard, diciamo così, romantico, intimista (intimo lo è già stato all'ennesima potenza), il quale, anziché scavare all'interno di sé stesso, questa volta si rivolge soprattutto al mondo esterno, alla natura, agli oggetti della quotidianità, al corpo nella sua fisicità: le mele, le vespe, il sole, le petroliere, la calce, il sangue, i pidocchi, le tazze del water... Una ispirazione quasi bucolica, e infatti l'idea è di comporre un «Quartetto delle stagioni», che comincia in Autunno (Feltrinelli, pagg. 238, euro 18, traduzione di Margherita Podestà Heir, illustrazioni di Vanessa Baird), il che avviene per motivi storici (la notizia della gravidanza) ma non stona con il carattere un poco ombroso dell'autore, anche se qui Knausgard non parla di tentativi di suicidio o di cadaveri alla futura figlioletta. Ma Knausgard è Knausgard e, anche se in Autunno non c'è la forza travolgente di La mia battaglia, non mancano tocchi tutti suoi: i dettagli su come si apre una lattina di piselli, i confronti tra i colori e le consistenze del vomito, il ricordo (risalente a quarant'anni prima, eppure, come al solito, miracolosamente intatto) di un uomo che uccide una vipera a sassate, la vita che si rispecchia in un sacchetto di plastica fluttuante nel mare di un'isola sperduta in un fiordo, i dubbi su che cosa fare di un dentino caduto a uno dei figli (lo butto, visto che non serve a nulla tenerlo? però come faccio a buttare un pezzo di mio figlio? lo butto, però nascondo il dentino nella pattumiera, così non continua a tormentarmi...). È una filosofia dell'esistenza che si riflette nella scrittura, e viceversa: l'oggettività quasi piatta dell'occhio descritto fra pupille, corpo vitreo e sclera e poi quell'anima che brilla nell'iride, all'improvviso, e ci conquista per sempre; la vista di un gruppo di focene, che per il nonno «portavano fortuna», che porta a una riflessione su ciò che «noi stessi» siamo e, da lì, a liquidare in un attimo la visione meccanicistica come riduttiva e assurda.
Pare uno Knausgard meno straripante, eppure è sempre lui, come quando assiste all'ecografia e scopre che il bebè sarà una bambina: «Io sono un sentimentale. Ma come scrivere di tutto questo, tanto piccolo e tanto grande, così semplice e così complicato, tanto triviale e tanto... sì, sacro? Sentimentale è un'altra parola per emotivo (...
) Definiamo sentimentale qualcosa che esagera con i sentimenti e gli affetti, che li spreca. Vuol dire che la sobrietà rappresenterebbe il valore più alto? Stanotte ci sono le stelle. Sono appena andato fuori a pisciare sul prato, cosa che faccio solo quando tutti dormono e sono solo».
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