La lingua giapponese non è soltanto figlia della lingua cinese, ne è anche allieva. Un'allieva fedele, solerte e molto, molto paziente, perché cominciò a studiare un secolo prima della nascita di Cristo e finì (anche se, come sappiamo, non si finisce mai di imparare...) al termine del XIX secolo, quando si poté dire che i giapponesi parlavano e scrivevano secondo un autentico (e autoctono e autonomo) «canone giapponese». Anche noi, qui in Europa, abbiamo dovuto sudare per costruirci l'italiano, il francese, lo spagnolo e via, appunto, discorrendo. Ma il nostro corso di studi è stato molto più accelerato, decisamente più breve di una laurea breve, in confronto a quello dei giapponesi. Per due motivi. Da un lato i maestri latini avevano già acquisito, in centinaia e centinaia di anni, il patrimonio culturale di altri maestri, quelli greci, cucinandolo da par loro. Dall'altro... ma a questo punto è meglio cedere la parola a chi ha facoltà di parlare: «mentre con un alfabeto fonetico come quello latino siamo teoricamente in grado, una volta apprese le convenzioni ortografiche e fonetiche basilari, di pronunciare correttamente anche parole di una lingua che non conosciamo, con i sinogrammi è praticamente impossibile conoscere con totale certezza la pronuncia di un carattere che non abbiamo mai visto, ed è di conseguenza molto difficile risalire esattamente al tipo di pronuncia legata a un determinato carattere in una certa area o contesto storico». Lo spiega Edoardo Gerlini, docente di Lingua giapponese classica all'Università Ca' Foscari di Venezia. Insomma, a noi studenti europei l'alfabeto fonetico latino ha dato una grossissima mano, mentre dall'altra parte del mondo i nostri omologhi giapponesi hanno dovuto vedersela con quella sorta di rebus spaccameningi dei sinogrammi.
Gerlini ha curato per Marsilio il primo volume di un progetto editoriale inedito (e non soltanto perché contiene anche testi giapponesi mai tradotti in italiano): Antologia della poesia giapponese. I. Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo). Nell'Introduzione al volume, cui ne seguiranno due, fino a giungere ai nostri giorni, Gerlini dice molte cose che noi occidentali mediamente acculturati non potremmo immaginarci, portandoci oltre le porte di Tannhäuser (guarda caso, ecco un altro poeta, per quanto tedesco) che si aprono su un lontanissimo universo linguistico. Per esempio dice che in Giappone il bilinguismo paritetico è proseguito fino agli inizi del Novecento; che i giapponesi lentamente si affrancarono dalla dittatura dei sinogrammi dotandosi dell'alfabeto fonetico dei katakana, molto più semplice da leggere e quindi da diffondere; che fu la scrittura onnade, cioè «per mano di donna», divergendo da quella otokode, cioè «per mano di uomo», a emancipare le lettere giapponesi. Così, seguendo la lezione del prof Gerlini, il lettore/studente completamente digiuno di sinologia e rimasto fermo alla fascinazione fluttuante di qualche haiku, quindi al XVII secolo, quando la lingua giapponese già si reggeva sulle proprie gambe, un po' si preoccupa, aspettandosi una materia oscura e impenetrabile.
E sbaglia, perché fin dalle prime pagine dell'antologia che presenta i testi in giapponese e in italiano, scopre (vale a dire: ricorda) che, al netto degli artifici retorici, pur importantissimi e caratterizzanti ogni lingua, l'anima della Poesia distillata dai traduttori parla un solo idioma in tutto il mondo. Per tutte le poesie vale la definizione che di quella giapponese diede, fra IX e X secolo, il poeta e funzionario di corte Ki no Tsurayuki: «ha come seme il cuore dell'uomo, che si tramuta, ecco, in innumerevoli foglie di parola». Prendiamo ad esempio un canto shintoista: «Dai remoti tempi/ delle auguste divinità,/ le foglie di bambù nano/ prendendo in mano, dicono,/ si cantava e si danzava». Ma questo è Platone, quando nel Fedone riporta il detto dei preposti ai Misteri: «i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi»... E prendiamo questi versi di Kasa no Iratsume dal Man'yoshu, la più antica antologia di poesia giapponese: «Come candida rugiada/ sull'erbe all'ombra della sera/ nella mia dimora/ che sembra svanire, vano/ è forse il mio rimembrarti». Non sentiamo un'aria petrarchesca, in quel «rimembrarti»? Eccola qui, Sonetto CCXXXI. «E 'l rimembrare et l'aspettar m'accora». E Mansei che scrive: «Il mondo umano/ a che cosa compararlo?/ A una nave che vogando/ lascia il porto all'alba/ senza tracce dietro di sé...» ci suona vicino al giovane e senile Leopardi come in questo Pensiero XXXIX: «Però parmi che i vecchi sieno alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta». E ancora qui, in queste sinestesie: «Freddo il suono delle foglie che cadono...», oppure «La fredda voce del grillo, soffiata qui dal vento...», echeggia Foscolo: «mentr'io sentia dai crin d'oro commosse/ spirar d'ambrosia l'aure innamorate». L'amore, certo, e per giunta proprio quello cortese, sbocciato dalle parti dell'imperatore di turno, l'amore che trabocca per Minamoto no Yoshi: «Un corso d'acqua montana/ tra gli alberi/ freme nascosto, impetuoso/ il mio amore,/ e più non riesco oramai ad arginarlo», parallelo a quello di Alda Merini: «Ruscello vivo è l'amore che corre/ nei giardini dei poeti/ e genera rose, e genera pioggia e pianto».
Dunque, fra raccolte imperiali, sillogi personali, collezioni che escono dalla comfort
zone dei palazzi nobiliari per scendere fino a sfiorare i sentimenti del volgo, questa antologia dell'antica poesia giapponese ci conforta. Mostrandoci un'altra, eccelsa interpretazione di uno spartito che è anche il nostro.
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