Le lezioni di "Tango" del maestro Borges fanno volteggiare tutta la letteratura

Le lezioni di "Tango" del maestro Borges fanno volteggiare tutta la letteratura

Come l'enorme Buddha orizzontale nel tempio di Wat Pho, a Bangkok, così il corpo alfabetico di Jorge Luis Borges è sdraiato sulla città di Buenos Aires. Borges ha scritto di Dante e dei miti norreni, di Kafka e di Stevenson, di Spinoza, di tigri blu e di mistica islamica, di libri di sabbia e di labirinti, eppure il centro del suo mondo letterario, la sua Delfi, l'ombelico del verbo, la Gerusalemme celeste, era Buenos Aires. La natura poetica di Borges, in effetti, comincia, nel 1923, con un libro che s'intitola Fervore di Buenos Aires e termina, etica della circolarità, sessant'anni dopo, con un testo androgino, né saggio né racconto, Atlante, in cui racconta, ancora, della Recoleta, il quartiere focale di Buenos Aires, dove «meravigliosa è la serenità delle tombe» (così la poesia del 1923), ma «qui non ci sarò io, che farò parte dell'oblio che è la tenue sostanza di cui è fatto l'universo» (così il testo del 1984). Della sostanza di Borges, piuttosto, è fatta Buenos Aires, non c'è angolo né ombra che non sia vampirizzato da un aneddoto che lo riguardi.

Quando, dunque, il 23 gennaio del 1965, Borges, il più grande scrittore di cui l'Argentina abbia memoria - ha già pubblicato, da anni, quelle due raccolte fondamentali, Finzioni e L'Aleph - incontra Astor Piazzolla, musicista totale, pare, davvero, che a incontrarsi siano il Platone e l'Aristotele di Baires. A favorire l'incontro, come ricorda in un libro anomalo e spavaldo, Borges: Develaciones (Fundación E. Costantini, 1999), fu Félix della Paolera, intimo di Borges - più giovane di lui di 24 anni, lo conosce «una mattina di marzo del 1948», da allora, ogni giorno, a pranzo, s'immerge con lui in discussioni senza tempo - specie di Zelig della letteratura di laggiù. Alto, ambiguo, coltissimo, viso aristocratico e astratto, Félix della Paolera, detto «Grillo», intratteneva carteggi con Martin Heidegger, discuteva di Rimbaud con l'amico Juan Rodolfo Wilcock, si narra di una sua colossale sbornia con William Faulkner. «Credevo che quell'incontro potesse dare dell'Argentina una immagine meno stereotipata, meno banale», ricorderà, lui.

L'incontro tra Borges e Piazzolla fu culturalmente un successo e decisamente un disastro. Quello stesso anno, infatti, i due incidono un disco, El tango, con «testi di Jorge Luis Borges e musica di Astor Piazzolla», che avrebbe dovuto cambiare il mondo, ma restò una specie di Ufo musicale, «il distributore si limitò a una tiratura minima, e non fece altre registrazioni», ricorda, rammaricato, il fatale Félix. Borges, tuttavia, raccontò con piacere l'incontro e l'incarico di scrivere per Piazzolla su La Nación: «mi sentii onorato della proposta, benché dubitassi delle mie capacità nel risolvere un esercizio un po' inusitato per me. In seguito mi accorsi, non senza stupore, che i testi delle milonghe e del tango si facevano spazio dentro di me spontaneamente, senza l'intervento della mia volontà: un antico fondo criollo consolidava quei versi, come se fossero i miei padri a dettarli». Uno degli esiti pienamente letterari di quell'incontro è la raccolta di milonghe Para las seis cuerdas, uscita proprio nel 1965, dove «nel ritmo tutto cantabile di queste composizioni gauchesche, allo spavaldo balenio dei coltelli si accompagnano apoftegmi di luce popolare ma di ombre bibliche» (Domenico Porzio).

A quello stesso 1965, anno capitale, in cui Borges precisa i suoi legami con «l'argentinità», d'autunno, risalgono le quattro conferenze su Il tango ora tradotte e curate da Tommaso Scarano per Adelphi (pagg. 170, euro 14). Le conferenze, scoperte per mistica casualità nel 2002, registrate su audiocassette, poi tramutate in libro, riferiscono della voce di Borges, della sua capacità fabulatoria. Per parlare del gaucho, lo scrittore cita i versi di Walt Whitman; per dire della natura malfamata, maliziosa, violenta del tango - Borges è affascinato dalla brutalità della lotta, dal rollio delle lame, dall'infima distanza che separa gloria e infamia, vita e morte - e del suo eroe, il compadrito, uomo d'onore, dedito al malaffare, prono al rischio, cita le leggende scandinave, i cavalieri delle «regioni boreali» per i quali «il coraggio era il loro Dio, al di là dell'antica mitologia pagana o della nuova fede cristiana». Nella stessa spirale di frasi, Borges parla di Carlos Gardel e di Mark Twain, e poi di Poe, di Sir Walter Raleigh, dell'amico Adolfo Bioy Casares, di Parigi, di San Francisco e del «tango in Giappone e in Oriente». Il solito Borges, insomma, quello, per dire, che poco dopo, in Elogio dell'ombra (1969), scrive una poesia su James Joyce, una imitazione dalle Rubaiyat di Khayyam, l'ennesima poesia su Buenos Aires e una prosa lirica dedicata ai Gauchos che ha, al centro, un verso di onnipotente bellezza, «morivano e uccidevano con innocenza».

Continuerà, Borges, a scrivere milonghe, poesie per Buenos Aires e racconti «di guappi e malviventi» (Juan Muraña, ad esempio, incastonato ne Il manoscritto di Brodie). «Il tango, ma soprattutto la milonga, è stato un simbolo di felicità», sussurra Borges al termine delle sue conferenze.

«Supponendo che tutto questo sia eterno, credo che ci sia qualcosa dell'anima argentina che è stato salvato da questi umili, e a volte anonimi, compositori della periferia, qualcosa che tornerà». Come sempre, sono i poeti anonimi, liquidati nell'oblio, a fare una identità. Quanto a Borges, balla ancora il suo vorticoso tango cosmico tra la Recoleta, Palermo e il vigore infinito delle galassie.

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