La poesia è retta da un dio ebbro, sempiterno alla stramberia, capace di estrarre l'Eden dal Caos: Lawrence Ferlinghetti muore duecento anni dopo John Keats, il poeta che in Endymion scrive «Una cosa bella è una gioia per sempre», ottimo epitaffio per celebrare l'esistenza, secolare, di LF.
«Poet and titan of the Beat» lo celebra il Los Angeles Times: nacque il 24 marzo 1919 a Yonkers, New York, da papà bresciano e madre ebrea sefardita, amava Thomas S. Eliot, si laurea alla Columbia su John Ruskin, scriveva, «Se vuoi essere poeta, crea opere capaci di rispondere alla sfida/ di questi tempi apocalittici, benché questo suoni apocalittico./ Sei Whitman, sei Poe, sei Mark Twain, sei Emily Dickinson, sei Majakovskij e Pasolini, sei Americano e non Americano, puoi conquistare i conquistatori con le parole».
Fu il pupillo della poesia, d'altronde, Ferlinghetti: il padre muore d'infarto prima della sua nascita e la madre passò anni in un istituto per malati di mente. Servì durante la Seconda guerra, visse lo sbarco in Normandia, vide la bomba atomica e pubblicò The Howl - L'Urlo - di Allen Ginsberg, la detonazione più potente della lirica di allora. Per difenderlo, era il 1956, Ferlinghetti subì il carcere. Secondo la leggenda narrata da Fernanda Pivano Ferlinghetti aveva ascoltato Ginsberg declamare il suo poema alla Gallery Six di San Francisco. «Fu una notte pazza Quella sera Ferlinghetti mandò a Ginsberg un telegramma ricalcando quello che Ralph Waldo Emerson aveva mandato a Walt Whitman quando aveva ricevuto una copia dell'edizione 1855 di Leaves of Grass: «Ti saluto all'inizio di una grande carriera». Ferlinghetti aggiunse: «Quando mi dai il manoscritto?». Il processo intentato per oscenità ebbe il carisma di far esplodere la carriera poetica di Ginsberg e il talento eccentrico del suo editore. Rispetto agli altri beat, mostri che latravano il proprio ego con facce buddhiste, Ferlinghetti era dotato di una compassione bibliografica. Nel 1953 aveva fondato la City Lights Bookstore, nel quartiere italiano di San Francisco: una casa, prima che una impresa editoriale, l'antro della controcultura, il paradiso di dio Lawrence. Nei decenni hanno pubblicato tutti con lui, Bukowski e Burroughs, McClure, Paul Bowles, Kerouac, Sam Shepard, ma anche, con l'acume dell'anti-canone, Artaud e Majakovskij, Dino Campana, Georges Bataille, André Breton, Bertolt Brecht. Grazie a Ferlinghetti, la Beat Generation diventò un fenomeno bibliografico; ma lui, sornione, gigante, pressoché immortale, trapezista del nonsense, un poco guru e un poco clown, volteggiava sopra i beatnik, aveva il genio della leggerezza, privo di scorie nostalgiche, della mitraglia del disincanto nichilista che azzoppò un po' tutti.
La City Lights, oggi, onora il suo creatore, ricalcandone la poetica editoriale: «È stato determinante nella democratizzazione della letteratura americana creando insieme a Peter D. Martin la prima libreria di tascabili del paese, che è riuscita a rendere disponibili molti libri, di diversi generi, a poco prezzo; dal 1955 pensò la City Light Publishers per suscitare un fermento di dissidenza internazionale'. Il suo genio ha plasmato la poesia americana».
Le celebrazioni poco si addicono a un uomo che lottava sorridendo, che credeva nei versi come estasi. Credeva che l'uomo potesse essere purificato nel crogiolo della lirica; che il male, infine, sfogherà nel bene; che l'uomo, per natura, è magnetizzato dalla bellezza. Il suo libro più importante, A Coney Island of the Mind è stato edito da New Directions nel 1958 e in Italia per merito di Damiano Abeni e Moira Egan da Minimum fax. Nel 2018 Lo Specchio Mondadori ha pubblicato Greatest Poems.
Ferlinghetti muore a 101 anni: una cifra mistica, lo zero tra due inizi. Pare, in effetti, una rinascita: in cosa si sarà reincarnato Ferlinghetti? Aveva una determinazione coriacea e la fragilità dei giganti di vetro. Quando, nel 1953, fonda la City Light, sulla costa occidentale degli States muore Dylan Thomas: naturalmente, lo conosceva. Nella Palinodia in ritardo per Dylan Thomas, lo definisce «il poeta più amabile dei nostri giorni/ il dolce cantore di Swansea»; oggi Dylan Thomas gli dedicherebbe uno dei suoi versi più noti, «E la morte non avrà più dominio».
L'utopia beat, un poco isterica, in Ferlinghetti acquisisce qualcosa di fatato, di fatale, «Erano tutti folli poeti sbrindellati che vagabondavano insieme dormendo sotto i ponti del mondo». Li vide morire tutti, senza incupirsi, si sentiva il discepolo di Don Chisciotte. In una delle interviste rilasciate nel 2019, per il suo primo secolo di vita, Ferlinghetti stigmatizzava i poeti troppo seri, che edificano una carriera coi versi, piuttosto vili quando si tratta di scendere nell'agone della scelta. «Ci vorrebbe una nuova generazione non dedita a glorificare il sistema capitalista. Una generazione che non sia intrappolata nell'io, io, io», diceva.
Credeva ancora nella rivoluzione guidata dai poeti, sapeva che il suo nome ormai Ferlinghetti, Ferlinghetti! era la serratura che conduce a un altro mondo, più bello.
Ha avuto il talento, concesso a pochi, di congedarsi scrivendo della propria infanzia, in un romanzo improbabile e mirabile, Little Boy. Ha sconfessato il cliché secondo cui i grandi poeti come Keats muoiono giovani. No, i grandi poeti possono morire anche dopo un secolo di vita.
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