N el 1750, quando iniziò le pubblicazioni del periodico bisettimanale The Rambler da lui interamente scritto, Samuel J. Johnson aveva appena superato i quaranta anni d'età, ma era già un protagonista del mondo intellettuale britannico. Aveva pubblicato, fra l'altro, una biografia del poeta Richard Savage, suo grandissimo amico, come lui squattrinato, compagno di avventure bohémien, di bevute in taverne londinesi e vagabondaggi alla ricerca di giacigli di fortuna. Quel saggio, Vita di Richard Savage, costruito sulle confidenze dell'amico, salutato con favore dal pubblico e visto come innovativo del genere biografico, accrebbe la notorietà del «dottor Johnson», per la verità piuttosto ampia anche per la collaborazione al The Gentleman's Magazine.
Già da qualche anno Johnson, poi, aveva cominciato a dedicarsi alla stesura della sua opera più importante, che gli avrebbe assicurato un posto di rilievo nella storia lessicografica del suo paese: il Dizionario della lingua inglese, redatto col proposito esplicito, nella convinzione che l'idioma inglese avesse raggiunto la perfezione lessicale, di far piazza pulita di barbarismi, in particolare francesi, e di deturpanti licenze idiomatiche.
Anglicano osservante e conservatore convinto, il «dottor Johnson» (1709-1795) ebbe una vita relativamente lunga che coincise col regno dei primi sovrani della dinastia Hannover Giorgio I, Giorgio II e Giorgio III subentranti agli Stuart. Che fosse un'epoca, quella, molto vivace dal punto di vista intellettuale non v'è il minimo dubbio. Operarono, in quel periodo, scrittori come Jonathan Swift e Olivier Goldsmith, filosofi come David Hume e Adam Smith, storici come William Robertson ed Edward Gibbon, pensatori politici come il padre del conservatorismo Edmund Burke e via dicendo: una specie di età d'oro, insomma, della cultura inglese.
Johnson era un uomo piuttosto alto dall'aspetto robusto, ma portava sul corpo le cicatrici deturpanti della scrofola ed era affetto da una strana malattia che gli provocava scatti convulsi e un gesticolare ridicolo che suscitava sorpresa e ilarità. Il pittore William Hogarth, che lo incontrò per la prima volta a casa di Samuel Richardson, vedendolo scuotere la testa e muoversi in modo strano e ridicolo, ebbe l'impressione che si trattasse di un «idiota» messo sotto tutela presso lo scrittore, ma rimase ammirato quand'egli si unì alla conversazione.
Dotato di una cultura enciclopedica, di una memoria prodigiosa e di un eloquio forbito, il «dottor Johnson», malgrado l'aspetto e l'incontrollabile gesticolare, affascinava coloro che avevano occasione di frequentarlo. La signora Porter, una bella vedova col doppio dei suoi anni e destinata a diventarne moglie con scandalo generale per la differenza d'età, confessò alla figlia: «È l'uomo più intelligente ch'io abbia mai conosciuto in vita mia». Del resto, di lei Johnson il quale, per la rigida educazione religiosa, non aveva mai ecceduto in facili licenze e passioni giovanili, preferendo alle donne, piuttosto, qualche buon bicchiere di vino si era subito, davvero, innamorato.
Il fascino della sua conversazione era dovuto alle doti oratorie, alla vastità delle citazioni (Adam Smith disse di lui che era «l'uomo che aveva letto più libri al mondo»), alla capacità di argomentare, alla ricchezza di battute frizzanti che ne infioravano i discorsi. Non mancava, infatti, Johnson, di sense of humor e di una buona dose di autoironia. Lo si evince, per esempio, dalla definizione che egli dette, proprio del Dizionario della lingua inglese e pensando evidentemente a se stesso, del «lessicografo» come di «uno sgobbone inoffensivo».
Che egli fosse uno «sgobbone», almeno dal punto di vista della scrittura, non è neppure da mettere in discussione sol che si guardi alla mole della sua produzione: migliaia e migliaia di pagine, scritte quasi tutte di getto, talora neppure rilette, ma sempre eleganti e raffinate. Il culmine dell'attività di saggista fu raggiunto negli oltre duecento articoli scritti per The Rambler, il bisettimanale pubblicato a Londra dal 20 marzo 1750 al 14 marzo 1752. Che a quegli articoli, in realtà brevi saggi, Johnson tenesse in maniera particolare lo fanno intendere queste parole: «i miei altri scritti sono come vino annacquato, ma il mio The Rambler è vino puro».
La raccolta completa di questi saggi è stata ora pubblicata nel volume in due tomi di Samuel Johnson, Il Viandante (Aragno Editore, pp. LII-1432, euro 75), impeccabilmente curato dal punto di vista filologico da Daniele Savino che è anche autore della fine traduzione. La scelta del titolo del periodico, The Rambler, che significa «viandante» o «girovago», non fu per Johnson semplicissima: «mentre ero in procinto di pubblicare il giornale non avevo idea di come chiamarlo. La notte me ne restavo seduto a letto deciso a non prendere sonno fino a che non avessi trovato il titolo. Il Viandante mi sembrò quello che faceva al caso mio, e da allora non cambiai più idea». Il titolo rispondeva benissimo allo spirito del periodico che non intendeva occuparsi di temi di attualità ma proponeva in ogni numero una articolata riflessione su un qualche argomento letterario, filosofico, morale.
Quel periodico ottenne largo successo e consacrò il «dottor Johnson» come per usare le parole del suo più celebre biografo, James Boswell «maestro di saggezza morale e religiosa». A leggerli sistematicamente o, anche, a scorrerli in maniera rapsodica, i 208 apparsi sul periodico danno l'impressione di un'opera, per qualche verso, assimilabile a un capolavoro del pensiero filosofico, gli Essais che Michel de Montaigne aveva scritto nella seconda metà del XVI secolo nella Francia dell'epoca delle guerre di religione.
Il paragone è ardito perché lo scetticismo di Montaigne ha ben poco a che fare con lo spirito illuministico di Johnson, ma entrambi appartengono al grande filone del moralismo. Che un pizzico di scetticismo, poi, retaggio del tradizionale empirismo inglese, ci sia anche in Johnson è evidente. Lo si vede, per esempio, nella sua convinzione che la storia non insegni nulla agli uomini: «ogni giorno che passa ci dimostra che l'uomo non ha ancora imparato nulla dai propri errori o che, se lo ha fatto, le sue azioni non ne risentono minimamente».
Per quanto non si occupasse di politica in senso stretto, pur se in realtà scrisse qualche pamphlet politico, Johnson era un conservatore liberale alla maniera di Burke e diffidava dell'uso del potere senza contrappesi: «non esiste una forma di oppressione più pesante o duratura di quella che deriva dall'esercizio perverso e sfrenato di un legittimo potere». E ciò anche se, con una punta di amaro realismo, ammetteva la fascinazione esercitata dal potere: «il potere e il prestigio ci lusingano e ci deliziano a tal punto che, per quanto siano intrisi di tentazioni ed esposti ai pericoli, persino la virtù più guardinga o la prudenza più timorosa farebbero fatica a rinunciarvi».
L'idea che aveva del governo ideale, il «dottor Johnson» la vedeva incarnata nella monarchia dell'età georgiana, seguita all'assolutismo degli Stuart. Emblematica in proposito è questa battuta pronunciata durante una conversazione con Boswell: «più il potere è concentrato, più è facile abbatterlo. Un paese governato da un despota è come un cono rovesciato. Il governo non può esservi così saldo come quando si fonda su un'ampia base che va gradatamente restringendosi: il governo della Gran Bretagna, per esempio, si fonda sul Parlamento, su cui si colloca il Consiglio privato e poi il Re».
Una immagine suggestiva che sembra dettata, più che da una riflessione di natura politologica, dal buon senso. Quel buon senso che percorre tutte le tante, tantissime pagine de Il Viandante e che le trasforma in un contenitore di grani di saggezza.
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