Il "Macbeth" di oggi? Distopico come "Hunger games". La bravura del cast è più che classica

In una serata di ritorno alla tradizione le scenografie elettroniche si sposano (a fatica) con la performance di alto livello di una squadra collaudata in cui brilla Salsi

Il "Macbeth" di oggi? Distopico come "Hunger games". La bravura del cast è più che classica

L'ora inaugurale è arrivata, anche quest'anno. Il rito dei riti della buona società, la prima della Scala, messo a dura prova, quasi in discussione, dalla tempesta pandemica, ha ritrovato la sua tradizionale serata con l'esecuzione del Macbeth di Giuseppe Verdi. Sono tornate la frenesia presenzialista, i rosei addobbi floreali rigorosamente sponsorizzati, le starlette e i sirenetti in posa nei ridotti per foto ricordo e selfie, il corteggio disordinato del sottobosco politico, per fortuna anche le insistite ovazioni al Capo dello Stato richiesto di bis. Era come se l'incubo non fosse avvenuto. Certo, l'aria generale che tirava attorno alla Scala aveva mutato qualche abitudine: causa distanziamenti, niente cene per happy few, ma proiezioni diffuse e periferizzate, tradizionali come presentazioni ed emozioni dei protagonisti. Immancabili, striscioni e rivendicazioni transennate verso Palazzo Marino, mantra retorici, commenti dei soliti noti. Negli ultimi settant'anni, da quando il maestro Victor de Sabata decise di sposare la data della prima della Scala dalla sera di Santo Stefano a quella del patrono di Milano, Sant'Ambrogio, il 7 dicembre è sempre l'evento che toglie il sonno ai protagonisti e lascia l'amaro in bocca a quanti ne sono rimasti esclusi. Il gruppo di artisti prescelti per quest'appuntamento prestigioso formano una squadra esperta e collaudata guidata dal direttore d'orchestra Riccardo Chailly, giunto alla sua ottava inaugurazione e dal regista Davide Livermore, al suo quarto Sant'Ambrogio consecutivo. Il suo spettacolo lascia l'anno Mille e si proietta nel futuro (o presente) distopico: Macbeth e Banco viaggiano in auto verso l'incontro con le streghe, che altro non sono che bluastre impiegate e mimi psicotici, niente magia oracolare. Sono tutti personaggi riconoscibili nel nostro immaginario e devono sembrare attori perché le telecamere sono impietose, svelando il primo gesto abbozzato o involontariamente buffo. Le scene ispirate al razionalismo dell'architetto Piero Portaluppi, sembravano più appartenere alla Capitol City di Hunger Games: Anna Netrebko ascolta la lettura della lettera di Macbeth (invece che recitarla essa stessa) e attacca con il fiume della sua voce l'aria demoniaca e la cabaletta delle ambizioni criminali (più adatta alla sua sontuosità sonora l'aria notturna, La luce langue che il belcantismo onirico del sonnambulismo). Il fatale duetto durante l'omicidio del re Duncano (un po' Ministro della magia di Harry Potter) è tutta inscritta in un'immensa hall vetrata; la festa turbata dallo spettro di Banco parrebbe uscita da quelle per i privilegiati del presidente Snow (sempre a Capitol City ma senza parrucche neo-punk), luoghi dove quel soprannaturale che affascinava la generazione di Verdi è assente.

Lo sforzo di impiegare proiezioni video (i cupi nembi che invadono la scena del finale atto II, i bellissimi vapori nebulosi che diventano bragia di sangue nella seconda scena delle streghe), di impiegare riprese con telecamere posizionate sui graticci sovrastanti e piani mobili (campeggia un ascensore per il patibolo che porta in scena vivi e morti), è indubbiamente una strada fertile per raccontare visivamente i tempi serrati del melodramma verdiano, espediente che il regista e la sua squadra di collaboratori ha impiegato con dovizia.

Con la guida di Riccardo Chailly, amante sincero del melodramma verdiano e del suo primo capolavoro shakespeariano, direttore e tutta la solida compagnia hanno ricevuto meritate ovazioni: il baritono Luca Salsi ha cantato la parte di Macbeth con onnicomprensiva generosità; la diva Anna Netrebko si conferma un talismano per l'esito felice della serata, il basso Ildar Abdrazakov è sempre un virile e scolpito Banco; Francesco Meli uno sperimentato e vigoroso Macduff; Ivan Ayon Rivas un già scalpitante Malcolm; Chiara Isotton un gran Dama della Lady. Non va dimenticato l'apporto del Coro: la tradizione scaligera è passata dalle mani di Bruno Casoni a quelle di Alberto Malazzi nel segno della continuità: il non dimenticato predecessore guida ancora le voci bianche.

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