«Su un fondo grigio e luminoso si staglia il piccolo musicista, in tenuta modesta, pantaloni rossi e berretto da polizia. Soffia nel suo strumento, si presenta di faccia». Così Émile Zola descriveva Le Fifre, il ritratto del pifferaio che costituisce il pezzo più importante della mostra Manet e la Parigi Moderna a Palazzo Reale da oggi al 2 luglio, con la curatela del presidente del Musee d'Orsay Guy Cogeval. Una grande produzione (firmata Skira/Mondomostre, con il contributo di Credit Agricole) che porta a Milano 27 opere del più grande e solitario tra gli artisti che rinnovarono radicalmente la pittura francese, accompagnandolo con dipinti dei suoi contemporanei Cezanne, Degas, Renoir, Monet e Gauguin. «I capolavori di Manet che abbiamo convocato ci consentono di dare un taglio nuovo a questa mostra», spiega Cogeval. «Si tratta di una di quelle iniziative espositive che nascono con un'intenzione precisa, dalla prima all'ultima stanza».
L'intenzione, non necessariamente filologica, è quella di proiettare Édouard Manet (1832-1883) sullo sfondo della Parigi di Napoleone III e del barone Haussmann, della radicale trasformazione urbanistica, dei cafè e dell'Operà, individuando così nel profilo di questo rampollo dell'alta borghesia, perennemente alla ricerca del consenso di massa che solo i Salon potevano accreditargli, il «vero pittore» che «saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico» vaticinato da Baudelaire nella figura del mediocre Constantin Guys. Un tentativo problematico, perché Manet resta soprattutto un grande artista accademico, più sensibile alla lezione degli antichi maestri, che al tentativo di cogliere il tratto contrastante di una città che mutava «più velocemente del cuore di un uomo». Così, l'intera carriera del gigante Manet si consuma in un colossale equivoco. Lui che cerca di farsi apprezzare nel cuore delle istituzioni e del mercato, che invece lo respinge, concedendogli esclusivamente l'appello di un'altra umiliazione al Salon successivo. E la parte più avvertita della società culturale parigina, Zola in testa, che ne fa il beniamino di una causa persa. «Dicendo prima che il talento del signor Manet è fatto di giustezza e semplicità, mi ricordavo soprattutto dell'impressione che mi ha lasciato questa tela. Non credo sia possibile ottenere un effetto più potente con mezzi meno complicati», scrive ancora del Pifferaio l'autore di Nanà e Thérèse Raquin, certamente inconsapevole della lunghissima meditazione che Manet aveva compiuto si testi sacri di Velázquez durante il soggiorno in Spagna del 1865. Del sommo Don Diego scriverà a Fanti-Latour: «Da solo vale il viaggio; i maestri di tutte le scuole che lo circondano al museo di Madrid e sono molto ben rappresentati sono tutti degli impostori. È il pittore dei pittori: non mi ha sorpreso, mi ha estasiato». Ed è proprio grazie allo studio di Velázquez che riesce ad andare oltre ai mostri sacri Corot e Courbet, che pure, tecnicamente, lo sopravanzano. Manet ha più di loro qualcosa di moderno. Non è l'adesione al tema della città che cambia, ma uno sguardo più profondo, ottenuto con la soppressione dell'illuminazione interna e con un'ostentata bidimensionalità (era un conoscitore delle stampe giapponesi), a cui si attaccava la critica per denigrare Le Fifre, paragonandolo a una carta da gioco.
Si prenda l'altro grande capolavoro presente a Milano, Il Balcone. È di nuovo una scena cavata da un ricordo di Spagna, anche se Manet lo dipinge nel 1868/1869. I personaggi sono affacciati, come se si sporgessero verso la platea. Fanny Claus, la ragazza con i guanti e l'ombrellino verde accordato al colore dell'inferriata, ci osserva, ma il suo volto è fuori fuoco, immerso in un'ombra interna che è il tratto perturbante e respingente della pittura di Manet, quel suo tirarsi indietro un secondo dopo essersi proteso in avanti. Quando si parla di questo quadro di solito si tirano in ballo le Majas al balcon del Metropolitan di New York, realizzato nell'entourage di Goya. Ma nel modernizzare quella scena di genere -due figure femminili in primo piano che chiacchierano- Manet sembra insinuare un sospetto di incomunicabilità. Le due donne s'ignorano, immerse nei toni freddi, mentre il fondale è smangiato dalle tenebre, quasi a citare ancora una volta Velázquez, questa volta quello de Las Meninas. E se il terzo pezzo da novanta presente in mostra, La cameriera della birreria (1878/79) sembra finalmente evocare la Parigi dei boulevard, Manet scavalca Renoir, risolvendo tutta sul piano la scena della ragazza che avanza in equilibrio nonostante il peso dei boccali tutta sul piano, «senza rovesciare nemmeno un goccio di birra», particolare che secondo Theodore Duret aveva colpito il pittore. Sembra un tranche de vie, di quelli destinati a conquistare il naturalista Zola. Ma in realtà è un quadro realizzato in studio, facendo posare un'esperta cameriera della brasserie Reichshoffen. Come nel più celebre Un bar alle Folies-Bergère a interessarlo è la fissità dello sguardo della ragazza, perso nel vuoto come quello dei bevitori d'assenzio.
Manet non guarda mai direttamente la città, ma osserva impietosamente le creature che la guardano, e nei loro occhi coglie la dissoluzione di un mondo, e del suo senso. Per questo è lui a sembrarci, con Baudelaire, «assolutamente moderno».
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