Mengoni si fa in quattro. "Negli stadi un monologo e un club dance anni '70"

A San Siro il debutto su di un palco kolossal: "Dopo Sanremo torno sul valore delle parole"

Mengoni si fa in quattro. "Negli stadi un monologo e un club dance anni '70"

E dire che all'inizio sembrava agitatissimo: «Non è facile portare sul palco tredici anni di carriera». Poi sul palco di San Siro, calore ed entusiasmo oltre l'immaginabile, Marco Mengoni è andato dritto al punto portandosi a casa un concerto mica facile davanti a 54mila spettatori (saranno 35mila il 22 all'Olimpico di Roma). Per capirci, è stato il suo debutto in uno stadio, il suo ritorno dopo «due anni, sei mesi e un giorno» e pure la prova del nove di un artista che ha sempre bisogno di un passo successivo, di una sfida più grande. «Nel frattempo ho inciso il disco Materia (Terra) ma è vero che ho cantato dal vivo l'ultima volta in un mio show a Londra il 18 dicembre 2019», spiega prima di entrare in scena. A dire il vero, l'altra sera a Codroipo ha fatto «la prova generale» in modo da arrivare a San Siro «ready to go», pronto a partire, insomma perfetto.

Un concerto diviso in quattro fasi perché questo ragazzo di Ronciglione è partito piano piano ma poi è esploso diventando uno nessuno e mengonimila, capace di crescere, cambiare e seguire le proprie vocazioni: «Porto sul palco quarantun dischi di platino», spiegava di fianco ai tre ragazzi della Black Skull Creative che hanno contribuito a creare la scenografia. Lo ha fatto alla propria maniera, ossia originale, talvolta troppo, ma comunque sorprendente. Un concerto con un senso, ossia sensato. Dopo qualche parola «fuori campo», inizia la musica e Marco Mengoni non sale sul proscenio ma arriva da metà platea, in mezzo ai suoi fan e poi eccolo sul palco. Un modo simbolico per dire: riparto dal pubblico. Saranno ventisette canzoni a cominciare dalla prima che è impregnata di soul e di Procol Harum e simbolicamente contagiosa: Cambia un uomo. Da lì in avanti Marco Mengoni porta avanti un concerto che è una sorta di racconto intimo, personale, sofferto. Sono le quattro fasi della sua musica che a X Factor ha trovato la rampa di lancio ma poi ha dovuto «sagrinare» (leggasi: faticare) per diventare un punto di riferimento enorme per un pubblico multigenerazionale. E se il primo blocco comprende il singolo No stress (fortissimo in radio), il secondo accende gli animi perché ci sono brani come Voglio, Muhammad Alì, Psycho killer (cover dei Talking Heads, novità in scaletta), Credimi ancora, Mi fiderò e Solo due satelliti.

Però mica finisce qui.

Poi arriva il monologo sull'«importanza della parola», che è centrale e definisce fino in fondo l'impegno discreto e intelligente di un artista capace di restare al centro dell'attenzione senza deragliare nel gossip o nella polemicuccia un tanto al chilo. «Ho seguito l'intervista di Goran Bregovic nella quale diceva che nella sua lingua non esiste la parola tolleranza. E allora ho pensato che, se non esistessero certe parole, non esisterebbero neanche i concerti cui sono collegate come razzismo o indifferenza». Un ragionamento mica tanto comune in un concerto pop (lo aveva già accennato a Sanremo con Filippo Scotti). E sui social? «Lì spesso le parole non sono semplici parole ma proiettili».

Alla fine del monologo ammette che «non ho più paura di niente». E neppure ce l'ha il suo «Esercito», ossia la gigantesca legione di fan che lo segue sempre e lo ha fatto anche ieri sera in un San Siro incandescente per oltre due ore. E immaginatevi quando, con Parole in circolo e L'essenziale sembra davvero di essere in un club dance anni '70. O quando canta Sai che in un gigantesco cubo che emerge davanti al palco.

«Qui c'è il quadruplo di energia rispetto a un semplice concerto», diceva prima di salire in scena. Poi lo ha confermato sul palco, piangendo di gioia e prendendosi tutti gli applausi che ha sognato per due anni, sei mesi e un giorno esatti.

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