Se gli dico che è un provocatore, che il suo lavoro arde nella polemican sbotta: «Polemico è un aggettivo che non mi appartiene, come anche provocatorio». Sembra un po' il Cappellaio Matto, un po' Gandalf vestito da Oscar Wilde. Poco prima mi ha detto dell'incontro con Jorge Luis Borges («aveva l'aura, era così evidente, e poi la sua María Kodama... di una eleganza impeccabile»), ha gli occhi di un bambino. «Diversamente da molti miei contemporanei, non m'interessa polemizzare né provocare. Ognuno la pensi come vuole. Io ho un'idea precisa dell'essenza della Poesia (e uso non a caso la maiuscola) e non scrivo neanche una riga per compiacere i miei amici o clienti».
Certo. Il fatto è che l'anomalo studioso gioisce nell'aver assegnato lo stesso spazio critico a Camillo Sbarbaro e al guru Eugenio Montale («Un grande poeta, ma ipervalutato») affollando il florilegio di poeti pressoché ignoti - qualche nome: Luisa Giaconi, Nella Nobili, Franca Grisoni, Adriano Grande, Tito Marrone, Lina Fritschi, Biagia Marniti, Mary Bertin - esaltando la misconosciuta Mariagloria Sears («I leoni sul sagrato è uno dei libri più belli del decennio '50-'60», in effetti, pubblicava Mondadori), ribadendo ciò che per me è ovvio ma per altri eresia, cioè che Maria Luisa Spaziani è «indubbiamente più alta di Alda Merini», paga lo scotto, cioè il difetto di popolarità, per «non aver fatto mai parlare di sé come personaggio». Eppure, sbaglieremmo nel considerare vaga ed eccentrica l'antologia allestita da Silvio Raffo, poeta, romanziere - da La voce della pietra, già candidato al Premio Strega, è stato tratto un film con Emilia Clarke, quella di Game of Thrones - traduttore di genio - a lui dobbiamo la gran parte delle poesie di Emily Dickinson nel «Meridiano» Mondadori che ne raduna Tutte le poesie; tra l'altro, nella sua casa-Wunderkammer ho visto una pila di fogli in cui è raccolta l'opera intera di Philip Larkin, ancora orfana di editore.
Muse del disincanto (così il titolo del lavoro, per Castelvecchi, pagg. 590, euro 46,50) si regge su una idea critica precisa, antiaccademica, fin dal sottotitolo, Poesia del Novecento - quarant'anni dopo l'antologia epocale di Pier Vincenzo Mengaldo che raccoglieva i Poeti italiani del Novecento - cioè quella di ridiscutere i valori aurei del canone, spesso dettati da mode distratte. In sostanza, si tenta di limare «la sproporzione del numero di saggi critici sulle distinte opere di autori di pari valore», che, scrive Raffo, «mi è sempre parsa una sorta di discrasia lesiva di un'oggettiva valutazione critica in un'area così ricca di sfumature tutte apprezzabili». Detto in altro modo, «ho completato il quadro, raccogliendo voci che nessuna delle antologie degli ultimi quarant'anni ricorda e che valgono più di tanti poetucoli strombazzati da amici critici e scribacchini». Se non è polemica questa. Macché, evidenza dei fatti direbbe Raffo.
In ogni caso, l'antologia fa il suo dovere, dando giusto valore a poeti di genio finora accolti con poca gloria - Lucio Piccolo, Piero Bigongiari, Bartolo Cattafi, Daria Menicanti, Fernanda Romagnoli, ad esempio -, imbarcando autori degni di nota ma fuori dai criteri d'accademia - Emanuel Carnevali, Tommaso Landolfi, Emilio Villa, Mary De Rachewiltz, Quirino Principe. Soprattutto, il lavoro di Raffo, fuori dalle museruole della critica laureata, è schietto, utile - c'è una Appendice metrica fondamentale per capire il marchingegno lirico e un capitolo su Musa e musica leggera - adatto alle scuole, pensato per studenti con voglia di avventatezze poetiche (Raffo ha un pedigree da prof leggendario). L'antologia si chiude sullo zerbino del nuovo millennio, sulla soglia di «questa caotica, multimediale e psichedelica fin de siècle, tanto variegata quanto sibillina». Raffo, strenuo difensore della bellezza, stremata dal tempo presente («Oggi la poesia è un esercizio di ingegnosità lambiccata... un'arida pantomima in cui la Bellezza non ha alcuna voce in capitolo», mi dice), lancia la sfida della sopravvivenza della poesia ai poeti del terzo millennio. «Lo spegnersi delle domande fondamentali, il decadere della poesia pensante di holderliniana memoria, e insieme del canto e del senso estetico della forma non rischiano di condurre l'operare poetico a un arido esercizio di scrittura? I poeti si trasformeranno in semplici scrittori in versi?», scrive nella Postilla all'eroica antologia.
Penso non sia un caso se i più grandi poeti nuovi di oggi pubblichino per piccoli editori, nell'aldilà dell'attenzione (mi riferisco ad esempio a Federico Italiano, Isacco Turina e Francesca Serragnoli), prediligano il maggese del silenzio, la circolazione dei versi nel samizdat delle rare amicizie (Riccardo Ielmini), si siano dati ad altro, di alto (Andrea Ponso, che ha appena curato per il Saggiatore una imponente versione del Cantico dei Cantici), oppure preferiscano una vita ritirata, nello splendore della solitudine (Andrea Temporelli, cofondatore della rivista Atelier, già autore, per Einaudi,
de Il cielo di Marte, era il 2005, un'era fa). I poeti, insomma, ci sono, fantastici e fantomatici: la responsabilità di riconoscerli ed estrarli dal frastuono, è nostra. La poesia non sbraita, pretende di essere scoperta.
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