"Mi sento come l'elefantino, tutti gli artisti sono diversi"

Il regista ha rifatto il classico Disney: "Odio il circo, mi ispiro a Fellini"

"Mi sento come l'elefantino, tutti gli artisti sono diversi"

Mentre la Disney si fa colosso, per contrastare il gigante dello streaming Netflix la casa di Topolino ha appena acquisito la 21th Century Fox per 71,3 miliardi di dollari, ridisegnando il panorama dell'intrattenimento -, ecco Tim Burton all'opera con il remake di Dumbo (da domani, con oltre 700 copie), classico cartone animato disneyano del 1941. Stavolta, però, niente venature gotiche dark, tipiche dell'autore di Edward mani di forbice, abile a mescolare fantasia e bizzarria. Anzi, l'anarcoide Tim, 60 anni di caffeina iperattiva, s'iscrive con dolcezza nel solco del cinema dei nonni e corregge l'iconica scena «politicamente scorretta» degli elefantini rosa, lisergici e ubriachi. Oggi, infatti, animali o bambini in stato d'alterazione non si contemplano. Neppure nelle fiabe. Ma preparate i fazzoletti: il nuovo adattamento live-action del grazioso piccolo pachiderma volante, che viene separato dalla mamma, fa vibrare il cuore. Star del calibro di Colin Farrell (il vedovo Holt, vecchia gloria del circo e con due figli a carico), Danny DeVito (Max Medici, proprietario del circo) ed Eva Green (Colette, la trapezista) rendono Dumbo ancor più spettacolare, intrecciando storie di uomini e animali in un universo magico e colorato. Essenza Disney assicurata, dunque. Anche se l'eccentrico film maker, calzini a righe fluo e camicia blu come gli occhiali, dimenandosi come un polpo spiega che, in realtà, lui odia il circo.

Che cosa l'ha spinta a rifare Dumbo, classico poco in linea con i film che ha girato finora?

«Ho aderito subito al progetto, perché Dumbo, l'elefantino che vola, è un simbolo che adoro. Un classico amato da tutti, che ho modernizzato pensando al suo aspetto diverso dagli altri, alla sua disabilità. Un essere che riesce a trasformare il suo svantaggio, le orecchie enormi, in un vantaggio. Un personaggio positivo. Mi ha attratto la potenza di questo simbolo».

Da artista eccentrico, si sente un po' Dumbo?

«La figura dell'artista è perfetta per parlare di diversità. Tra i personaggi Disney, Dumbo è quello al quale mi sento più affine e ci ho messo molto del mio e delle mie esperienze inusuali. Mi sento come Dumbo: non rientro in alcuna categoria».

Il suo è un film circense. Ha visto i film di Federico Fellini?

«Sì. Per me il cinema italiano è fonte d'ispirazione. Sento l'energia e la forza del cinema di Fellini. Sono amico e ammiratore di Dario Argento. E mi piace Lamberto Bava. Premetto, però, che a me il circo non piace. Fin da piccolo odiavo i clown, che mi facevano paura. E vedere gli animali in gabbia... non è per me. Forse, al circo mi divertono cani e cavalli».

Il tema dell'ambiente e del rispetto per gli animali è presente in Dumbo.

«Un animale selvatico non dovrebbe mai essere costretto a fare cose strane. Magari, lo zoo fa imparare ai bambini che esistono certi animali, o specie a rischio di estinzione».

A quale suo film si sente più vicino?

«È come chiedere a un padre di indicare qual è il suo figlio preferito... È dura! Proprio non riesco a scegliere».

Oggi, al Quirinale, ritirerà il Premio David alla Carriera dalle mani di Roberto Benigni. Come si sente?

«È straordinario. Mi auguro soltanto che la mia carriera non finisca qui. Dopo aver girato tre film appena, a Montreal vollero darmi un premio alla carriera: era come essere morto e presenziare al mio funerale».

Nella sua biografia Burton on Burton scrive che mai avrebbe lavorato con grandi compagnie come la Disney, temendo di perdere l'indipendenza. Ha cambiato parere?

«Premesso che nessuno ti dà la libertà, ma devi essere tu a prendertela, beh, la vita è così. È come nella famiglia: c'è del buono, del meno buono. E con la Disney ho sentito di lavorare in famiglia. Con i miei attori di sempre, Danny DeVito, Michael Keaton ed Eva Green. Girare un film significa creare una famiglia... disfunzionale. È come stare in un circo».

Ha affrontato Dumbo attingendo al suo passato da disegnatore?

«Anche Orson Welles, oltre a Federico Fellini, partiva dal disegno per fare un film. Se penso al mio rapporto col disegno, rafforzato nel film d'animazione, penso che comunicare col tratto mi venga naturale. A parole, non mi esprimo altrettanto bene».

Il suo Dumbo non parla: è una scelta?

«Ripensando all'originale, alcuni animali avevano la voce, altri no. Volevo rendere credibile l'elefantino che vola, nella sua purezza e semplicità. In un mondo complesso come il nostro, volevo far emergere il personaggio semplice, diretto, onesto».

Come mai qui manca il suo tipico tratto gotico?

«C'entra ancora Federico Fellini.

Quand'ero bambino, a Burbank, stavo tutto il tempo con famiglie italo-americane: mi dicono che sembro italiano, perché gesticolo molto. Per me, nel circo qualcosa di gotico c'è. Le forme stesse del circo contengono l'elemento gotico».

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