Ripartire da dove si era rimasti. O quasi. La scorsa estate il Covid impedì al Rossini Opera Festival di far debuttare uno dei suoi massimi artefici in un titolo che era per lui un'assoluta novità. E un anno dopo, il 9 agosto, finalmente il grande Pier Luigi Pizzi potrà ritrovare l'attesissimo Moise et Pharaon, per inaugurare, stavolta, la quarantunesima edizione del prestigioso festival pesarese. Ma non sarà più lo stesso spettacolo.
«Un anno fa il progetto era pronto in ogni dettaglio racconta il maestro, smagliante novantenne creatore di centinaia di allestimenti lirici e di prosa, molti dei quali storici - Così ho avuto un anno intero per rifletterci. E alla fine ho cambiato idea: non mi convinceva più. E lho completamente rifatto. Forse il primo progetto sarebbe stato migliore Ma ora il Moise et Pharaon sarà quello che sta prendendo forma in queste lunghe, appassionanti settimane di prova».
E così, eccola al suo ennesimo debutto.
«Un memorabile debutto a Pesaro fu nel 1983, per la prima volta in epoca moderna, quello del Mosè in Egitto, da cui Rossini trarrà per Parigi appunto- Moise et Pharaon. Straordinario per sintesi e concentrazione il primo, più articolato e magniloquente questo. Rossini conosceva il pedaggio da pagare al gusto francese del grand opéra (come già nel Siege de Corinthe, versione parigina di Maometto II) e dunque l'obbligo di aggiungere delle danze: un lungo divertissement romantico totalmente avulso dalla trama».
Che pone il primo problema: come impedire che queste danze risultino un'appendice estranea al resto?
«Difficile integrarle nel percorso narrativo. La musica stessa non aiuta: viene da un'altra opera rossiniana, l'Armida, e non ha alcun rapporto con la vicenda. Conosco bene queste danze: in una remota, acclamata edizione alla Fenice, la coreografia di Serge Lifar con un gruppo di etoiles dell'Opera di Parigi le eseguì in puro stile Taglioni. Ma qui siamo in un altro clima e in altro stile. Con il coreografo George Iancu ci siamo forzati a trovare un inserimento verosimile nella drammaturgia. Così siamo nel tempio sacro ad Iside: a lei e allo sposo Osiride rendiamo omaggio evocando il loro accoppiamento e la nascita del figlio Orus, in un contesto di rituale sacro. Non esitiamo a cogliere spunti ironici, anche qui disseminati nella partitura. Il Maestro sornionamente sembra avvertirci di non prenderci mai sul serio.»
Secondo problema: scoglio tradizionale, temuto dai registi quanto atteso dal pubblico, il finale kolossal dell'apertura del Mar Rosso.
«Proprio perché è così atteso non pretenderà che sveli come lo risolveremo! Del resto quest'opera è piena di effetti speciali: l'arcobaleno, la pioggia di fuoco, il passaggio dalle tenebre alla luce Mi avvarrò di sistemi tradizionali, ma associati a quelli più sofisticati e sorprendenti della tecnologia illuminotecnica».
L'insidia di un grand opéra sta, paradossalmente, proprio nelle sue dimensioni spettacolari delle quali, peraltro, lei è riconosciuto maestro- che rischiano però di soffocare l'intimità dei sentimenti.
«Le mie produzioni degli ultimi anni sono caratterizzate da un lavoro di sottrazione. Con un rigore che mi è abituale, cerco di essenzializzare al massimo il dispositivo scenico. E nonostante gli spazi dilatati del nostro palcoscenico, non perdo di vista la concentrazione emotiva dei personaggi, i loro momenti privati, le loro solitudini... Avevo bisogno di dare respiro all'azione. Così ho creato altre zone ai lati della fossa orchestrale, destinate soprattutto al coro, cui Rossini ha dato un risalto primario».
E visivamente, come sarà l'Egitto di Pier Luigi Pizzi?
«Nessuno spostamento di luogo e di tempo, ma un Egitto restituito secondo il mio stile. Quindi architetture essenziali, abiti evocativi di un'epoca remota, senza le smanie dell'"egittomania" di moda nella Parigi di Rossini. Da una parte il mondo gli ebrei, chiusi in una specie di lager e custoditi da guardie (ma nessuna citazione nazista) come in una dimensione fuori del tempo, sotto cieli africani. Dall'altra la gelida corte del faraone».
C'è un messaggio nella sua regia?
«È affidato al finale dell'opera.
Quando gli Ebrei usciti incolumi dal passaggio del Mar Rosso, si ritrovano nel clima rappacificato del do maggiore, non sono più in Egitto ma altrove, in un tempo recente, scampati all'olocausto. E intonano il Cantico di ringraziamento, raramente eseguito, per la libertà ritrovata, per la speranza che rinasce».
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