Con Munforte anche il noir diventa alta letteratura

Con Munforte anche il noir diventa alta letteratura

Uno scrittore a patto che sia davvero tale lo riconosci dal tono. Pure quando ci sembra abbia preso un'altra strada, o cambiato, con una virata, il suo immaginario, è sempre quel tono che ce lo fa tornare a essere familiare o, più precisamente, riconoscibile perché quella riconoscibilità è il segno di una visione unica. Non si tratta di una monotonia armonica, ma proprio un modo di tradurre linguisticamente la propria percezione del mondo. Succede leggendo Il fruscio dell'erba selvaggia (Neri Pozza, pagg. 144, euro 16) di Giuseppe Munforte, che con questo suo ultimo libro sembra quasi voler sperimentare il romanzo di genere: il noir. Anche qui troviamo la malavita organizzata (nella periferia di Milano) che traffica droga e armi, che minaccia di morte. Ma del romanzo di genere ha solo questi punti fermi che non sono altro che un contesto, e lo capiamo quando a prendere parola è Abele a poco meno di quaranta pagine dall'inizio. La verità è che Munforte non si è mai allontanato da se stesso, dalla sua particolare sensibilità. Quell'Abele, che ricoverato in ospedale diviene amico di Massimo, un delinquente simpatico, anche lui degente, il quale gli si racconta, uno che ha provato a uscire dal giro, a rifarsi una vita, una vita a cui se ne intrecceranno altre in una costruzione romanzesca elaborata e efficace; quell'Abele, dico, non è che la voce stessa di Munforte. Se non conoscessimo i libri di Munforte, da Meridiano a La prima regola di Clay, fino a Dove batte l'onda, potremmo pensare a un atto di presunzione o a un eccesso di ingenuità. Ma non c'è nome più adeguato a quella voce, a quel tono di cui parlavamo.

Abele non è esattamente l'innocente, o la vittima sacrificale del male umano. È colui che attraversa la vita in un soffio. O, meglio, è il soffio stesso della vita, il suo respiro profondo. Perché, dunque, ci sembra che Abele sia il nome stesso della scrittura di Munforte? A un certo punto leggiamo: «La scrittura è anche un atto di rinuncia alla vita, come la fede».

Quella rinuncia di cui parla Abele, anzi Munforte, anzi la sua scrittura non è che la possibilità di abbandonarsi a quel soffio che la vita la fa essere. È esattamente questo il tono di Munforte, una voce che parla da un altrove che è qui.

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