Mussolini e il potere di farsi e disfarsi da sé

La cura dell'immagine, la cultura da autodidatta e la scelta (autolesionista) di stare con i più forti

Mussolini e il potere di farsi e disfarsi da sé

Come tutti i dittatori, Mussolini non aveva senso dell'umorismo, ma sapeva controllare le proprie emozioni. Adottava in pubblico una mimica teatrale con pose talora ridicole ma efficaci per la creazione e gestione del consenso. Tuttavia si lasciava andare, in privato, soprattutto di fronte a esponenti popolari, a comportamenti in apparenza semplici, cordiali, diretti. Che fossero sinceri o rivelatori del bisogno di sentirsi un capo autentico della nazione è, naturalmente, altro discorso. Il suo temperamento vigile e sospettoso, fondato sull'autocontrollo e sostanzialmente anaffettivo, lo portava a diffidare anche delle lodi degli ammiratori. Usava, consapevole o inconsapevole, la menzogna come strumento di dissimulazione o autoaffermazione. Per esempio, l'immagine, in seguito divenuta una vulgata, del «figlio del fabbro» era una piccola bugia che celava il fatto che egli, in realtà, non proveniva dal proletariato, ma da un ambiente piccolo-borghese. Il padre, in effetti fabbro e maniscalco, era divenuto un padroncino con operai e aiutanti alle dipendenze e aveva sposato con matrimonio cattolico una bella insegnante elementare di buona famiglia. Quell'immagine, grondante pauperismo e miseria, era funzionale al mito dell'uomo venuto dal popolo che amava il popolo. Che essa non corrispondesse alla verità lo notò presto - molto prima di Paolo Monelli, autore della gustosa biografia Mussolini piccolo borghese (1950) - Antonio Gramsci che già nel 1924 vide in Mussolini «il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce» in contrapposizione alla figura del vero capo proletario incarnato da Lenin.

A svelare il volto genuino del fondatore e capo del fascismo, a scostare cioè la maschera che ne ha celato i lineamenti tramandandone un'immagine falsata dal mito, si è dedicato Maurizio Serra, accademico di Francia e diplomatico italiano, nello splendido libro Il caso Mussolini (Neri Pozza, pagg. 512, euro 19): un'opera, scritta con eleganza narrativa e finezza stilistica, che non è una biografia tradizionale, ma un itinerario alla scoperta del «mystére Mussolini» (come recita il titolo dell'edizione francese del volume, uscita il 2 settembre) concentrato sugli snodi essenziali della vicenda umana e politica del Duce e dello stesso regime. L'intento di Serra è anche esorcizzare sia lo spettro continuamente evocato di Mussolini - «quel morto tra noi», per usare la fulminante battuta di Leo Longanesi - come prototipo dell'«uomo forte», sia quello di un «pericolo fascista» troppo spesso utilizzato come «alibi per sviare l'attenzione dai ritardi e dai problemi effettivi del nostro sviluppo attuale».

Serra introduce il lettore nella personalità di Mussolini, «falso proletario e vero piccolo borghese» che, «sedotto o quanto meno lusingato dalla frequentazione con le classi dirigenti tradizionali», appena giunto al potere cerca di «esibire un'immagine più rassicurante» e lontana da quella del capo delle squadre. Così si affida a diplomatici e maestri di cerimonie per apprendere i rudimenti del bon ton, si fa fotografare in cilindro in ritrovi mondani, si veste come un dandy conservando però «l'abitudine contadina d'indossare sotto la camicia una maglia di lana o di ruvido cotone».

Mussolini era dotato per le lingue e lo si vide bene in occasione della Conferenza di Monaco del 1938. Aveva una cultura vasta pur se confusa, certo da autodidatta, ma la sua curiosità intellettuale era inesauribile. Leggeva di tutto e persino nell'ultima fase della sua parabola politica e umana, a Salò, riuscì a dedicarsi alla lingua spagnola, a interessarsi di letteratura russa e giapponese, a tradurre libretti di Wagner e capitoli di Il rosso e il nero di Stendhal. Non aveva, però, una filosofia politica di riferimento. Era, per così dire, un «cleptomane ideologico». Peraltro, su di lui ebbe influenza forte e duratura il sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel. Ma, soprattutto, era un realista e un tattico, non badava alle ideologie, però sapeva cogliere gli umori delle masse che gli garantirono il consenso.

Forse furono il suo realismo politico e il suo tatticismo a evitare che il fascismo, a differenza del nazionalsocialismo o del comunismo, si traducesse in un regime di «totalitarismo perfetto». Su questa mancata deriva pesò anche il suo temperamento: egli, come ricorda Serra, «non fu mai capace di liquidare i suoi avversari o competitori interni in purghe simili alla notte dei lunghi coltelli hitleriana o ai processi di Mosca» e «non concepiva nemmeno la violenza astratta di un Lenin o di un Mao, pronti a utilizzare i milioni di morti delle carestie a fini politici».

Maurizio Serra offre, prima di tutto, un ritratto suggestivo, e per molti aspetti sorprendente e inedito, di Mussolini, dei suoi amici più intimi, delle sue donne, dei gerarchi più vicini e di quelli che gli si schierarono contro. Ma offre anche molto di più: la ricostruzione dettagliata di com'egli sia riuscito a conquistare il potere costruendo un regime dittatoriale e, anche, di come abbia gestito (o cercato di gestire) la politica estera dell'Italia fascista. Nel volume di Serra - il quale, non dimentichiamolo, oltre che un diplomatico è un valido studioso di storia delle relazioni internazionali - i capitoli dedicati alla politica estera sono fra i più densi e innovativi dal punto di vista interpretativo e fanno la differenza fra quest'opera e altre biografie di Mussolini. In esso viene ridimensionata l'immagine corrente secondo cui Mussolini non aveva né un grande interesse per la politica estera, né una visione strategica dei rapporti internazionali. Serra mostra com'egli fosse «l'unico leader non provinciale emerso dai ranghi fascisti, l'unico che, come i rivali liberali Giolitti, Nitti o Sforza, potesse muoversi da subito e a suo agio nel contesto internazionale». Non solo: «lui e soltanto lui univa allora all'audacia manovriera in politica interna una conoscenza già sofisticata, maturata sin dal periodo svizzero, poi affinata a cavallo della Grande Guerra, dei meccanismi della politica estera». Se c'è un filo conduttore di politica estera in tutta l'avventura mussoliniana, secondo Serra va rintracciato nel «principio di schierarsi dalla parte del più forte, valorizzando il più possibile il proprio contributo», un principio che Dino Grandi sintetizzò nella formula del «peso determinante». Mai tentato o sedotto dall'idea della «sicurezza collettiva», che ebbe una breve stagione di popolarità internazionale, Mussolini, che non amava Hitler tanto che per lungo tempo si rifiutò di incontrarlo, finì per «infilarsi progressivamente, ineluttabilmente nel patto con Hitler, con molte esitazioni e qualche impennata, ma senza più poterne cambiare il corso». E fu l'inizio della fine: la sciagurata legislazione razziale, la velleitaria «guerra parallela», l'incredibile e inspiegabile dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, la catastrofe militare, il crollo del regime il 25 luglio, il triste tramonto come Gauleiter d'Italia e podestà di Gargnano, l'arresto e l'uccisione.

L'ultima fase dell'avventura mussoliniana è costellata di misteri di fronte ai quali Serra prende posizioni probabilmente destinate ad alimentare polemica, come, per esempio, la dimostrazione della non plausibilità del carteggio Churchill-Mussolini. Ma, al netto di tutto, con questo suo bel libro Maurizio Serra si è proposto, a mio parere riuscendovi, non già di «blindare un feretro», ma di «cercare di capire Mussolini quale egli fu e le ragioni di un caso di indubbio rilievo nel Novecento italiano ed europeo».

Il tutto inserendolo «nel contesto del suo tempo, lontano dalle pastoie e dai dubbi accostamenti del presente». Secondo la lezione di Renzo De Felice e di François Fejtö alla cui memoria il volume è dedicato con sentimenti di affettuosa discepolanza e amicizia.

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