È senza dubbio il romanzo più divertente di questo 2021, che pur di risate, dal punto di vista delle novità di narrativa, ne ha offerte diverse. Non ultimo il dibattito su vari quotidiani sull'ennesima presunta morte della critica letteraria, ormai «impegnata a pubblicizzare più che recensire i libri». Ma non è certo per questo che ci occupiamo de La felicità del lupo, il nuovo romanzo (appena uscito per Einaudi) di Paolo Cognetti che con Otto montagne nel 2017 ha vinto il Premio Strega. Cognetti da anni si è ritirato in una baita in Val D'Aosta, come racconta in Otto Montagne. Eppure a leggere le cronache culturali e gli appuntamenti di festival, presentazioni, simposi, circoli Cognetti respira più acciaio e cemento di me che almeno posso godermi, nel centro del centro di Milano, i vantaggi e la pace di un ciliegio giapponese che dicono rilassi.
Riascendo a valle: in questa La felicità del lupo Cognetti ha il merito di farci divertire prima all'ultima pagina. Cognetti proviene da quella nidiata che sono i radical flop, i giovani talenti scoperti decenni fa da Minimùm Fax: Cristian Raimo, Veronica Raimo, Nicola Lagioia. Cognetti, però, dimesse le vesti di presenzialista culturale metropolitano indossa le braghette dell' alpinista della domenica e ci consegna frasi da caminetto. Allora niente di meglio che iniziare mettendo subito in chiaro con il lettore che la sua destinazione in montagna è dovuta al voler «masticare l'amaro della solitudine». Davanti ad una frase del genere immaginiamo il protagonista del romanzo -che è un io narrante inscindibile da Cognetti- sulle vette del Cervino mentre da quanto scrive poche righe dopo è il titolare di un «ristorante in un posto che non offriva altra clientela di muratori e allevatori di bestiame». Forse è lo Strega vinto per Otto montagne a dare alla testa o forse, come scrive poche pagine dopo sente di «essere stanco dell'insipida compagnia di sé». Solitudine senza sale? Bah. Per adesso si sorride amaro, ma poi subito si torna alla risata sganasciata quando leggiamo «Che buon profumo che hai. Sai di stufa».
Chissà, magari per le donne più radical esiste il profumo di stufa ma bisogna chiedere a Michela Murgia. Poi lui «le diede un bacio di luglio su quella bella clavicola che sporgeva» (esistono i baci mensili? Si fa l'abbonamento?) Verso sera Fausto, titolare del ristorante baita di montagna, tornato a casa «tagliò una fetta di pane e ci spalmò sopra il paté di olive» (ma siamo in montagna o in Liguria?). Poi «riempì un vassoio di bicchieri» (si riempiono i cassetti non i vassoi! Come fai? Hai un vassoio madia?). Fausto (Cognetti) abita in una casa che «è un reperto degli anni 70» ( un reperto? Un reperto è un oggetto, non una casa intera!) e che «gli ricordava gli ski-lift di fondovalle».
Non ho la soluzione.
Guardo fuori dalla finestra di Milano il mio ciliegio giapponese e continuo a ridere. Il mio reperto è dell'Ottocento, non sa di skilift ma ci hanno abitato Ernesto Calindri, Charlotte di Monaco e Raf. Devo far chiedere a Cognetti di cosa potrebbe sapere, ma spero non di stufa.
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