Locarno. Gli occhi della Storia. La sentinella della democrazia nel cinema. La meravigliosa giovinezza di un ragazzo di 89 anni che ieri ha ritirato il Pardo alla carriera dopo essersi portato a casa un Oscar per Missing, una Palma d'oro per lo stesso film che, in quel lontano 1982, aveva fatto litigare il presidente di giuria Giorgio Strehler con il giurato Gabriel García Márquez, un Orso d'oro per Music box - Prova d'accusa e un Golden Globe per Z - L'orgia del potere che, tredici anni prima - ed era il '69, a Cannes si era messo in tasca il premio della giuria.
Con queste credenziali, Costa-Gavras arriva a Locarno, dove non era mai stato, con l'entusiasmo di un ragazzino e spiega - forse con una punta di gratitudine - che questo festival è più importante di Cannes e gli altri perché solo qui ci sono film popolari e di ricerca. Le diverse tendenze di una settima arte che sta vivendo anni di apprensione e fatica.
Come siamo messi, Maestro?
«Male, malissimo. Siamo al capolinea di tutto».
Perché?
«La gente ormai guarda i film nel telefonino. Un'imperdonabile barbarie».
Anche su computer e tv, a essere onesti...
«Il cinema consiste in una collettività che guarda uno spettacolo di fronte a un grande schermo, non altro. È un'esperienza condivisa».
Quindi lo streaming e le piattaforme sono il Male assoluto?
«Diciamo che un piccolo pregio ce l'hanno. Uno solo, però. Rendono accessibili molti film a prezzi ridotti. Questo mi piace».
Le capita spesso di andare in sala?
«Sempre. Non c'è vita senza cinema».
E guarda anche i suoi film?
«Mai. La verità è che ogni tanto mi tocca perché, in occasione di qualche proiezione, mi chiedono di guidare il dibattito alla fine».
Chi consiglia tra i registi più giovani?
«Farei due nomi. Xavier Giannoli, l'autore di Illusioni perdute, e Julia Ducournau che l'anno scorso ha vinto a Cannes con Titane. Ma l'hanno massacrata».
Se oggi dovesse scegliere il protagonista di un suo nuovo film, chi sarebbe l'Yves Montand di oggi?
«Mi piace Vincent Cassel. Prenderei lui».
Anche se dovesse fare una serie?
«Oh no... Quelle non mi piacciono proprio. Sono un approfondimento concentrato su una materia specifica ma no... preferisco fare cinema».
Eppure per uno come lei che si è occupato di totalitarismo a più riprese...
«Ci si può esprimere adeguatamente anche senza eccedere».
Immaginiamo una nuova opera sulla dittatura. A che cosa penserebbe?
«Fortunatamente l'Europa non fornisce materia di studio. Diciamo che mi viene in mente Trump e, come contraltare, la Cina».
Ma Pechino ha fatto passi enormi verso il capitalismo.
«Appunto. Li ha fatti in un momento storico strategico».
In che senso?
«È cambiata la forma di potere mondiale, siamo passati dal fanatismo religioso alla dittatura del denaro e dell'economia».
Un ribaltamento.
«Diciamo che esistono dittature anche in Africa e in America Latina. L'unica riflessione possibile è l'opportunità di spiegarle e renderle plausibili ma nessuna è accettabile. Il riferimento è ancora Trump ma le più pericolose sono le persone dietro di lui. Si può comprendere la sua ascesa alla Casa Bianca ma non si può appoggiarlo».
Difficilmente le sue opere impongono una chiave di interpretazione.
«Voglio che tutti vedano e ognuno in base alla propria preparazione poi si faccia un'idea personale. Però...».
Però?
«Oggi al cinema non ci va più nessuno».
Allora qual è la forma giusta?
«Un film è come un libro. Un concerto. Va considerato nella sua totalità. La cosa più importante è la storia che si intende raccontare».
Un segreto per non fallire?
«Avere la consapevolezza che si sta creando uno spettacolo. In ogni momento vanno seminati i presupposti perché lo spettatore vada avanti. Va continuamente coinvolto e interessato. L'attenzione non deve scemare mai».
Anche a costo di scontentare qualcuno... A lei è capitato con Amen che compie vent'anni.
«Non si trattò di creare fratture, però».
Tuttavia qualcuno non gradì proprio.
«Se la presero gli integralisti. E con questo intendo coloro che scusano tutto e non accettano di assumere una posizione critica davanti ai fatti storici».
Anche se si tratta di un pontefice...
«Certo. Non c'era la volontà di attaccare Pio XII. Semplicemente il problema è la comunicazione. Il Vaticano non accettò di rivelare ciò che sapeva sulle camere a gas».
Costa-Gavras alla guida della Cinémathèque è altrettanto severo?
«Ma no, ho cercato di cambiare il modo di insegnare cinema».
In che senso?
«Ho preferito abituare i ragazzi a trasformarsi in piccoli registi. Non l'aveva mai fatto nessuno».
E su che cosa ha puntato?
«Se un ragazzo impara a fare un film e tutto ciò che questo comporta, avrà un modo diverso anche di guardare quello che incontrerà in sala».
Due risultati a un tempo, migliori piccoli cineasti e
migliori spettatori.«L'importante è non dimenticare mai che quello che si fa a scuola o a livello amatoriale è solo un assaggio. Essere professionisti è ben diverso ma almeno è un'occasione per intuirne le difficoltà».
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