"In Oman con Rigoletto è andato in scena l'ultimo sogno di papà"

Il figlio del Maestro racconta l'emozione di fronte al debutto della produzione postuma

"In Oman con Rigoletto è andato in scena l'ultimo sogno di papà"

Ogni prima teatrale è un'emozione. Ma alcune sono un vero colpo al cuore. E certo la prima del Rigoletto che lo scorso 20 gennaio ha celebrato i dieci anni della Royal Opera House di Muscat, in Oman (e che i telespettatori vedranno venerdì 28 in prima serata su Rai 5) ha toccato il cuore di molti. Primo fra tutti, quello di Pippo Zeffirelli. Figlio adottivo del grande regista scomparso due anni fa, per più di quaranta suo fidato collaboratore, e oggi fervido ed amoroso custode della Fondazione omonima che a Firenze raccoglie le meraviglie d'una carriera gloriosa, Pippo Zeffirelli ha infatti vissuto l'emozione del debutto di quella che è stata l'ultima, postuma produzione dell'inimitabile maestro.

Dopo la Traviata veronese, battezzata appena cinque giorni dopo la scomparsa di suo padre, lei ha assistito al debutto di un altro suo spettacolo senza più averlo accanto.

«Difficile dire quanto grande sia stata l'emozione. Questo Rigoletto è stato realizzato dai collaboratori più fidati del maestro, il risultato è stato ottimo. Ma noi tutti non potevamo evitare di pensare: Lui cosa ne direbbe? Perfezionista e incontentabile com'era, avrebbe ottenuto ancora di più; avrebbe fatto ancora meglio. Però almeno una cosa è certa: per onorarlo noi abbiamo fatto quanto di meglio potevamo».

Com'è nato questo spettacolo, prodotto dalla Fondazione Arena di Verona, cantato da Ambrogio Maestri (Rigoletto), Giuliana Gianfaldoni (Gilda) e Dmitry Korchak (il Duca), per la direzione di Jan Latham-Koenig?

«Zeffirelli lo concepì tre anni fa, per il Verdi di Salerno e la direzione di Daniel Oren. Preparò tutto fin nei minimi dettagli. Poi il progetto si arenò; ma quando gli chiesero di tornare in Oman per il decennale della Royal Opera House, che lui stesso, invitato dal sultano Qaboos, aveva inaugurato con una splendida Turandot diretta da Domingo, pensò di recuperarlo. Istruì Maurizio Millenotti per realizzare le sue idee nei costumi, Carlo Centolavigna nelle scenografie, Stefano Trespidi nella regia. Teneva moltissimo a questo spettacolo: nonostante i limiti fisici vi ha lavorato fino all'ultimo in totale lucidità, pieno di voglia di creare».

Quando infine il sipario s'è alzato, quanto di Zeffirelli c'era realmente nel vostro lavoro?

«La concezione generale era davvero la sua: ricca, precisa, suggestiva. Un magnifico mix fra impianto tradizionale e uso di materiali moderni, come il fitto tratteggio disegnato da decine di sbarre in plastica, che definiscono la scena come fosse un bozzetto, e rifrangono la luce in riflessi bianco-azzurri di grande effetto. E tipicamente zeffirelliana è la concezione di Gilda, ingenua e pura come Giulietta - ci diceva lui - commovente perché capace, per amore, di sacrificare sé stessa. Dei quattro Rigoletto firmati dal maestro in sessant'anni, dopo quelli di Genova, Bruxelles e Londra, questo è quello della piena maturità».

E le reazioni del pubblico dell'Oman, ancora digiuno della nostra tradizione melodrammatica?

«Gli omaniti in sala erano pochi, il pubblico era soprattutto internazionale. Ma la conoscenza dell'opera laggiù sta crescendo: fu proprio il desiderio del sultano Qaboos, cresciuto a Londra e intenzionato a formare il proprio popolo alla cultura occidentale, a spingere Zeffirelli ad accettare, già dieci anni fa, e nonostante l'età avanzata, i suoi pressanti inviti. Pur di averlo il sultano gli mise a disposizione il suo jet privato».

Per gli spettatori di Rai 5 un insperato ritorno all'opera tradizionale, quando ormai sembra quasi impossibile vederne una come l'ha immaginata il suo autore...

«Non me ne parli. Con queste orrende regie trasgressive cominciarono i tedeschi, e via via tutti si sono accodati. Il peggio è che il pubblico applaude, nessuno protesta. Ho visto la Traviata che Davide Livermore ha trasferito nella Parigi della contestazione del '68. Una cosa terrificante. Semplicemente pessima».

Ormai però le regie d'opera trasgressive sono preponderanti. Cosa ne direbbe Franco Zeffirelli?

«Lui non le rifiutava per principio: ad esempio era amico ed apprezzava, anche se non in tutto, Graham Vick.

Il problema è che l'opera richiede cultura. Mentre spesso questi registi sono ignoranti: non conoscono l'opera, non l'amano, non ne capiscono la natura. Per questo non la rispettano. Con la loro regia non vogliono servire l'autore. Ma soltanto sé stessi».

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