L'assegnazione degli Oscar, della scorsa notte, sembrava una emanazione del nostro manuale Cencelli. Sostituite a poltrone politiche la parola statuette e avrete una sintesi perfetta della serata. Una a te, una a me, una a lei, una a lui. Con il paradosso che la pellicola che ha vinto ben 7 Oscar, Gravity, non ha trionfato nella categoria più logica, quella del miglior film. Ci può stare, per carità, ma rimane più di un sospetto che la vittoria di 12 anni schiavo sia stata frutto più del politically correct che del reale valore del film. Perlomeno, il lungometraggio diretto da Steve McQueen partiva alla pari con American Hustle, Dallas Buyers Club e Gravity; rispetto agli altri tre, però, parlava di schiavitù e nell'America obamiana non ci si poteva, probabilmente, permettere di lasciare ancora una volta a mani vuote un simile soggetto, dopo le sconfitte, lo scorso anno, di Django Unchained e, soprattutto, di Lincoln. Del resto, basti pensare che 12 anni schiavo, da settembre, si insegnerà nelle scuole americane: la visione del film diventerà parte obbligatoria del programma degli istituti superiori pubblici degli Stati Uniti. Poteva perdere?
È stata la notte delle prime volte. Non era mai successo, ad esempio, che un film diretto da un regista di colore, il britannico Steve McQueen, vincesse la statuetta più ambita. E lo stesso McQueen è anche il primo artista diventato regista a portare un film al successo. Così come il messicano Alfonso Cuarón (miglior regia per Gravity) è stato il primo cineasta latino a fregiarsi di questa onorificenza. Interessante è stata la scelta di premiare Matthew McConaughey, come miglior protagonista maschile per Dallas Buyers Club. Un premio assolutamente meritato (non c'era partita), ma non scontato vista, ad esempio, la clamorosa trombatura di Meryl Streep, come miglior attrice protagonista, a vantaggio di Cate Blanchett. La vittoria di McConaughey è significativa. Famoso, fino a ieri, più per la sua avvenenza e per aver costruito una carriera con insulsi filmetti sentimentali, ha dimostrato, invece, negli ultimi anni, di essere un grande attore. Prima con lo strepitoso Killer Joe e ora nei panni emaciati e smagriti dell'elettricista, malato di HIV, Ron Woodroof. Che poi Di Caprio sia rimasto, per l'ennesima volta, a mani vuote, non fa più notizia. Dallas Buyers Club ha lanciato anche Jared Leto, Oscar come attore non protagonista per il suo ruolo del travestito Rayon. Anche lui, come McConaughey, ha un passato da rubacuori e di idolo teen. Un Oscar particolare il suo, visto che Leto è anche una rockstar, essendo il frontman dei 30 Seconds to Mars.
È la stampa, bellezza che ci ha sguazzato con le dichiarazioni fatte da Dylan Farrow sul patrigno Woody Allen. Eppure, a Los Angeles, nessuno si è turbato, assegnando a Cate Blanchett, per Blue Jasmine (diretto da Allen), la palma di miglior attrice. Bravissima, sia chiaro, ma la sconfitta della Streep è la sorpresa più grossa dell'intera serata. Lupita Nyong'o, invece, premiata come attrice non protagonista per 12 anni schiavo (per il suo ruolo della bracciante Patsey), ha ritirato la statuetta, stupefatta e commossa. La sua vittoria, però, ci stava (nella logica del premio al miglior film), anche se la Lawrence di American Hustle (il film grande sconfitta della notte) ha qualcosa da recriminare. Tra i film d'animazione, ha trionfato il disneyano Frozen, mentre le sceneggiature sono andate a 12 anni schiavo (non originale) e Her (originale).
I giornali americani fanno notare che le due pellicole che stanno dominando, negli Usa, in questi giorni, Non stop e Son of God, hanno racimolato più dollari di tutti i film premiati messi insieme, dimenticando che la qualità non è mai sinonimo di cinema popcorn. Non è un caso che a vincere sia stato, tra i film stranieri, La grande bellezza. È l'inno della Roma cazzara. Da ieri, potrebbe esserlo anche della Hollywood un po' paracula.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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