Perché l'amore postumo è meglio di San Valentino

Perché l'amore postumo è meglio di San Valentino

Nell'immensa offerta per la festa degli innamorati, tra viaggi esotici, esclusivi gadget in serie, trovate tipo la romantica cena in cima a un albero, o l'inarrivabile: «Ti raglio bene: invece dei soliti cioccolatini regala un asinello, a San Valentino» - ci sono anche i workshop teatrali di uno psicoterapeuta gestaltico, per farli durare il più a lungo possibile, i nuovi meravigliosi amori. Già, e per tutti quei colpi di fulmine senza tuono, quegli innamoramenti, cioè, senza esito? Quegli amori da pochi sguardi eppure così roventi da bruciarci la cornea e imprimersi nel cervello, e che ricordiamo magari come nemmeno più le compagne o i compagni che a scuola vedemmo per anni?

Ecco, la scuola: ero giovanissimo e matricola quel giorno e, finite le lezioni, passeggiavo sotto le palme fruscianti di Salerno con Clodoveo de Stradis, un irsuto gigante normanno che avrebbe poi intrapreso la carriera ecclesiastica e che, al momento, sproloquiava sull'Estetica trascendentale, quando, in fondo al viale, mi appare questa ragazza dai lunghi capelli corvini.

Pure se la bellezza resta il mistero che neanche l'estetica kantiana ha mai risolto, chiunque è in grado di percepirla alla prima occhiata, già solo vedendo qualcuno camminare. E quella morbida mora salernitana aveva un modo tutto suo e irresistibile di camminare mentre si avvicinava osservando un punto indefinito e distante. Sorrise e il suo sguardo fiammeggiante mi scagliò in un sogno e in quel sogno io mi persi e, ahimè, persi di vista lei. Pazienza mi dissi, è passata oggi passerà domani. Invece, per giorni e settimane e mesi feci ritorno su quel lato del lungomare senza mai rivederla. Poi cambiai università e anche la mia vita cambiò, ma è incredibile come ancora oggi - e sono passati quarantanni - basta il profumo del mare, la brezza che smuova gli alberi e quella visione torna a visitarmi.

E lei tra le tante - da giovani non ci innamoravamo con la stessa frequenza con cui si beve un caffè? Così la rossa cardiopatica dagli occhi verde-astrale contornati da un planetario di efelidi, vista nell'ascensore che ci sprofondava nell'abisso d'una camera operatoria; o l'altra, dai l'ultima, la bionda autostoppista romana che caricammo sulla nostra 127 country, mio fratello assolutamente impermeabile al blu Klein dei suoi occhi, io che per fissarli rischiai d'uscire fuori strada tra i terribili tornanti verso Sapri. E mentre m'immergo in quelle lontane prodigiose visioni sconsolato mi chiedo: ma è mai possibile che tutta questa passione, questo tormento non abbiano un seguito? Che tutto debba così vanamente finire? Quand'ecco, come in ogni grande momento di sconforto umano, venire in soccorso la fede. E sono quindi pronto a credere che accanto all'Amor sacro e l'Amor profano di cui Tiziano fornì - incluse la cinquantina di sfumature dell'efferato best seller - l'insuperata rappresentazione, ne esista un terzo e più potente, ovvero l'Amor postumo che, per la sua stessa purezza, si assicura una presenza d'obbligo in paradiso dove - a meritarselo - finalmente rincontreremo tutti gli amori sognati emmai vissuti.

Un'unica cosa: spererei di ritrovarli,

almeno loro, come li lasciai. Cristallizzati in quell'attimo di eterna inscalfibile bellezza. Così non fosse, con il sommamente desolato scrivano Bartleby, non mi resterebbe che dire: «I would prefer not to preferirei dennò».

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