Compie cent'anni il primo manifesto del Dadaismo di Tristan Tzara. Il secolo trascorso invita a chiederci quanto sia rimasto di valido nel movimento (anti?)artistico che volle scandalizzare il mondo. I dadaisti che si riunirono attorno a Tzara e animarono il «Cabaret Voltaire» di Zurigo erano tutti disertori dagli eserciti patrii rifugiatisi in territorio neutrale durante la Prima Guerra mondiale. Disertori dalla stessa borghesia in cui erano nati, dall'Illuminismo sbeffeggiato col riferimento a Voltaire, dall'Umanesimo occidentale, dalla razionalità. Se tutto ciò ha portato alla carneficina fratricida, pensavano, non è il caso di prenderlo sul serio, va esecrato. L'arte è meno seria ancora, se cerca razionalità e bellezza in un mondo orrendo e irrazionale. Ecco allora la regressione infantile dada (il nome richiama il balbettio dei pargoli), il senso per l'assurdo, l'interesse per i popoli primitivi.
Se il Futurismo sbandierava fiducia nel progresso tecnologico e auspicava la fine della Storia storica con impeto faustiano («Il tempo e lo spazio finirono ieri»), il Dadaismo esprime la nauseata fine di quella fiducia. Dada regredisce, abolisce la storia non con la velocità ma col non-senso, con lo sberleffo. Non indaffarati e frenetici faustiani sono i dadaisti ma più simili a monaci zen, buffoni per illuminare gli stolti. Si pongono oltre il tempo e lo spazio, promuovendo l'oblio di tutto ciò che l'uomo ha fatto. Finite le ostilità, il movimento si consolidò a Parigi, in Germania e negli Usa anticipando la Pop Art. Da noi ebbe meno successo, come racconta Emanuele La Rosa in Dada? Una pazzia criminale!, sottotitolo: «Ricezione e sviluppi dell'antiavanguardia in Italia (1916-1945)» (Robin, pagg. 200, euro 15). Primo scoglio da superare era la concorrenza futurista, Filippo Tommaso Marinetti non intendeva certo lasciare lo scettro di avanguardia più rumorosa. L'atteggiamento si fece ancora più ostile con Fascismo e il relativo «ritorno all'ordine» in campo artistico. La prima rivista dada italica, Noi, diretta da Enrico Prampolini e Bino Sanminiatelli, venne stroncata da Margherita Sarfatti, futura biografa del Duce. Stupiscono però altre critiche, di nomi noti, per contenuti non centrati sul valore artistico. Alberto Savinio ad esempio dalle pagine del mussoliniano Il popolo d'Italia definì Tzara «rumeno e tisico», i dadaisti prodotti di «razze incrociate» in preda a «pervertimenti sensualo-mentali quali la teosofia, la pederastia». Razzista anche Riccardo Bacchelli su La Ronda, diagnostica un «male ebraico-rumeno», mentre il critico Francesco Flora considera il manifesto dada «moccio verdegiallo di un bambino che ha il raffreddore» e insiste sulla perversione sessuale («una forma di autopederastia»). Telesio Interlandi, anni prima di fondare La difesa della razza, trova in dada la «voluttà dell'anarchia» esplosa nelle rivoluzioni bolsceviche. Però sulla rivista dada Bleu, fondata da Gino Cantarelli e dal pittore Aldo Fiozzi, entrambi di Mantova, scrive Julius Evola, dopo un apprendistato futurista con Giacomo Balla e prima delle opere filosofiche, esoteriche, tradizionaliste. Evola coglie l'invito dada a «innalzarsi al di sopra del mondo sensibile», il movimento di Tzara, col quale esiste un interessante epistolario, è «dottrina dell'assoluta astrazione e dell'assoluta libertà». Non arte ma «segno di un valore spirituale», possibilità offerta a un «Io assoluto» di negare la realtà esterna, «superamento del principio di natura». Trova consonanze fra gli scritti dada e il testo sacro cinese Tao te King, perfino con antiche dottrine gnostiche.
Evola, pensatore che per pregiudizio si crederebbe più ostile e razzista, è invece attratto dal lato contemplativo di Dada. Anche se ciò non gli impedì di organizzare a Roma serate «Jazz-band-Dada-bal» con «musiche per orchestrina, strumenti e percussione, voci, fischi, rivoltelle».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.