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Quanto dolore nelle madri delle vittime del terrorismo

Luca Telese in "Cuori contro" racconta la pena di chi, a destra o a sinistra, ha perso i suoi cari

Quanto dolore nelle madri delle vittime del terrorismo

C'è stata l'interminabile stagione della rimozione. Poi le vittime del terrorismo, i figli dei poliziotti, dei giudici e dei servitori dello Stato massacrati dal piombo brigatista hanno finalmente raccontato il loro strazio. Ma si trattava pur sempre di momenti, di flash, di spilli conficcati nella coscienza collettiva di un Paese. Mancava un libro che tenesse per mano il dolore della madri, da una parte e dall'altra, mancava soprattutto un testo che svelasse quanto sia faticosa la ricerca della verità: quali prove, quali tentazioni, quali umiliazioni debbano mettere in conto i padri, i fratelli, i figli di chi non c'è più, di chi fatalmente diventa con il tempo solo una foto appesa in salotto o una lapide sbrecciata su qualche muro.

Luca Telese, già storica firma del Giornale, oggi volto televisivo e tante altre cose, ha scritto quel libro e ha colmato quella lacuna: Cuori contro, appena pubblicato da Sperling&Kupfer, è una sorta di spin off, come si dice oggi, di quel saggio di culto che è Cuori neri, la scoperta dell'altra Spoon River, quella di una generazione imbevuta di fascismo e oscurata da un' interminabile eclissi.

Ora Telese torna sui luoghi di quella sciagurata guerra civile e ci mostra quel che è successo dopo, dal 2006 in poi. I dialoghi con gli ex terroristi, il lento maturare di un clima più rispettoso e comprensivo, ma soprattutto le sfibranti battaglie delle mamme, destra o sinistra non fa più differenza. Donne ormai anziane che dopo aver perso i loro ragazzi vorrebbero almeno sapere i nomi i degli assassini e invece devono scontare pure questa pena supplementare, costruita su un terreno friabile che genera nuove angosce.

Maria Lidia Zicchieri e Carla Verbano sono l'incarnazione di questa via crucis immersa nella smemoratezza di una società che ormai ha voltato pagina. Valerio Verbano, un ragazzo dell'Autonomia, muore a Roma il 22 febbraio 1980, nell'appartamento di via Monte Bianco, «sessanta metri quadri proprio al confine fra il rosso quartiere dei Talenti e il nero quartiere Trieste».

È quello il delitto forse più feroce degli anni di piombo, perché gli assassini, mai identificati, suonano il campanello di casa e entrano con una scusa. «Trovano Carla - ricostruisce l'autore - che dice: È ancora a scuola. Ribattono da dietro la porta: Apra signora, siamo amici di Valerio, lo aspettiamo. Carla apre - prosegue Telese - e non si è mai perdonata di averlo fatto per tutta la vita che le e' rimasta da vivere. Mai. E anche questa è una colpa per cui nessuno ha pagato». Carla e il marito vengono legati in camera da letto. Lei comincia a pregare che il suo ragazzo non torni, spera che un imprevisto o qualunque altra circostanza lo spingano a un cambio repentino di programma. Invece, maledizione, Valerio rincasa. Una breve colluttazione, poi lo sparo. E la vita della mamma prende un'altra piega, diventa solo la ricerca testarda della verità. Un percorso irto di ostacoli e alla fine incompiuto perché nel 2012 Carla muore senza essere riuscita ad alzare quel velo.

Un tragitto parallelo a quello di Maria Lidia Zicchieri, la mamma di un ragazzino dell'ultradestra, ammazzato come un cane a fucilate in via Gattamelata a Roma, il 29 ottobre 1975. Col tempo numerosi pentiti, legati alle Brigate rosse, svelano il canovaccio di quell'azione terribile. Nel 1982 Emilia Libera sintetizza l' incredibile motivazione di quel massacro: «Mario Zicchieri era stato ucciso per ottenere una promozione a brigatisti». Una sorta di upgrade nella scala del terrore. E dalle testimonianze incrociate escono tre nomi: Valerio Morucci, Bruno Seghetti, Germano Maccari. La strada sembra aperta, ma si richiuderà come il Mar Rosso sulle speranze di una madre. Che non perde un'udienza del processo ma alla fine giunge alla più cupa e amara delle conclusioni: «Mentre Maccari muore e Morucci diventa l'unico pentito che collabora con i magistrati per ricostruire i misteri del sequestro Moro, la morte di quel ragazzino di periferia diventa, nell'economia distorta della giustizia italiana, un dettaglio quasi insignificante. Una piccola verità sacrificabile alla ragion di Stato».

Maria Lidia e Carla: prove senza fine e, almeno per Carla, una fine senza prove. Le morti di Valerio e Mario restano misteri senza soluzione. I brigatisti vengono assolti, Maria Lidia non si da' pace. Anni dopo, Morucci è ospite proprio di Telese nel corso di in programma in onda su una tv satellitare. La signora Zicchieri irrompe al telefono: «Scusi Morucci, lei ha avuto l'insufficienza di prove. Adesso voglio sapere chi ha ucciso mio figlio». «Sinceramente - è la risposta agghiacciante di Morucci - neanche me lo ricordo. È stato ucciso quel giovane davanti a una sezione del Msi... e non si è venuti a capo».

Amnesia. Reticenza. Paura. Anche Morucci, l'unico che avrebbe potuto lenire la sofferenza di quella mamma, tace. Maria Lidia non saprà. Non avrà neppure quella consolazione.

Come Carla che oggi non c'è più. Anche lei non si arrende. E sfida in modo quasi temerario la sorte: invita a casa Nanni De Angelis, che molti sospettano sia l'assassino del figlio, lo fa sedere sul divano su cui si è accasciato Valerio, lo scruta, lei che per un attimo aveva intravisto il killer, si convince che non sia lui. Poi sparisce in camera. Il resto lo affida, dopo trent'anni di ermetico silenzio, ad Alessandro Capponi cui Telese è debitore di questa sconvolgente rivelazione: «Io ero sul letto, sdraiata. Niente poteva ridarmi Valerio. Dopo qualche minuto mi sono alzata, sono andata in cucina e ho preso la pistola». Regolarmente denunciata. «Avevo già deciso tutto quando sono uscita in balcone.

Da li' ho camminato fino a raggiungere la portafinestra del balcone. Sono arrivata fino al vetro, alle finestre. Poi mi sono fermata». Appena in tempo. Sull'orlo del precipizio. Inutile spargere quel dolore che l'ha tenuta prigioniera fino all'ultimo giorno.

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