C adrò, sognando di volare, da pochi giorni in libreria per Mondadori, è un romanzo che riassume la poetica della scrittura di Fabio Genovesi: la lotta per diventare adulto in un mondo adulterato. Il tutto raccontato da uno scrittore capace di coniugare le incursioni di Hunther Thompson (del quale è stato traduttore) ad una tradizione toscana: lui, nato a Forte dei Marmi nel 1974, ricorda le parole di Curzio Malaparte in Maledetti toscani: «la libertà dipende dall'intelligenza e il toscano è insolente, cinico e ironico». Ci sono echi anche di Mario Tobino, Aldo Palazzeschi, una irriverenza alla Lorenzo Viani e alla Don Lorenzo Milani e anche di Edoardo Nesi e Sandro Veronesi: assieme a me i primi a credere nella forza letteraria di Genovesi.
Se è famoso il detto secondo il quale, terminato Il giovane Holden di Salinger, veniva voglia di citofonare allo scrittore, finito questo Cadrò, sognando di volare l'istinto è di stringere la mano a Genovesi per ringraziarlo. Ringraziarlo di un romanzo - non mi succedeva da tempo- che aspetti la sera per proseguire, che centellini pagina dopo pagina per non arrivare alla fine. Un romanzo raro, soprattutto di questi tempi, dove l'attesa del libro da comodino ha lasciato sempre più spazio a libri che cannibalizzano il lettore, dei page turner, che ti fanno voltare pagina ma più per una compulsione stile serie tivù Netflix che per autentica convinzione.
A essere protagonisti sono lo svogliato universitario Fabio, il ciclista Marco Pantani e Don Basagni, il Direttore di un Istituto che il protagonista incontrerà e imparerà ad amare per i suoi silenzi e i non detti. Fabio, figlio di un idraulico di Forte dei Marmi - sacrificatosi per salvare una bambina in un mare d'inverno in burrasca- sembra destinato, dopo un'infanzia nella Forte dei Marmi invernale, a diventare avvocato: un lavoro che lui, arso sin da piccolo dal mestiere di scrivere non sembra accettare di buon grado. La sua grande passione, oltre alla scrittura, alla pesca e alla lettura, è il ciclismo: quel Giro d'Italia che sin da piccolo, a casa come nei bar lontani dal glamour del Forte, anima le sue estati di fine anni '90. Il giovane Fabio vede in Pantani il proprio eroe: il Pirata, quello pronto a scalare le vette delle montagne in uno scatto come a cadere nei crepacci della vita, è descritto come un anarchico dello sport: l'unico vero e autentico artista delle due ruote in un ambiente che più che di corsari ha bisogno di semplici corridori.
Fabio, a un certo punto, si vede costretto a interrompere gli studi per adempiere al servizio civile (l'unica alternativa che gli sembra valida quando era ancora in vigore la leva militare) che a quei tempi sembrava rendere ancora più in pace un mondo in guerra. Dal Forte viene trasferito in un misterioso e apparentemente disabitato convento di frati: un ex scuola per i bambini dei paesi di montagna vicini, paesi per lo più disabitati ormai erosi dalle cave di marmo come dai sogni.
In un romanzo corale tra ironia e affondi capaci di farci scalare le montagne delle vita, Genovesi ci consegna il suo capolavoro grazie a personaggi che sembrano destinati ad un film più da Franti che dal regista Garrone: non c'è quel buonismo estremizzato dei romanzi seguenti a Versilia Rock City ma protagonisti destinati ad entrarci dentro: come il Direttore dell'Istitituto Don Basani, che - per comportamenti, fattezze e musica ascoltata, l'ascolto ascetico delle canzoni dei Doors, è volutamente simile al colonnello Kurtz, interpretato da Marlon Brando in Apocalipse Now.
Quello che è certo che è a ogni pagina Genovesi sa sfiorare, questa volta senza
scordarle, le coordinate esistenziali della vita: ci fa sorridere, ci fa commuovere, ci fa affezionare ai suoi personaggi tanto che arrivati alla fine, ci si sente orfani di un romanzo che ci ricorda cosa significa vivere.
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