La manona è sempre fasciata: «Gaber suonava la chitarra con tre dita, Nek, anche lui infortunato alla mano, ora suona il basso con tre dita, insomma si può fare». Il resto però vola libero. Dopo quasi un anno da quel maledetto 11 marzo nel quale ha rischiato di perdere mano, faccia e vita nel fuoco, Gianni Morandi sprigiona un'energia che fa sembrare vecchio pure un ventenne. Sarà in gara al Festival di Sanremo con un brano scritto da Lorenzo Jovanotti e festeggerà i cinquant'anni dalla (non memorabile) prima volta: «Nonostante tutto la tremarella potrà venire pure a me che ne ho viste di cotte e di crude. Magari i giovanissimi lo sentono di meno. Ma per me Sanremo è sempre Sanremo». Ha appena compiuto 77 anni, ieri sera è ritornato a esibirsi al Teatro Duse della sua Bologna (ultima data il 17 febbraio, per ora) e dal primo febbraio sarà sul palco dell'Ariston: «Per me è come un ricominciare con una canzone di speranza, senza dubbio senza l'infortunio non avrei collaborato con Jovanotti e magari non avrei neanche progettato di andare al Festival».
Il brano si intitola Apri tutte le porte, ha un ritmo figlio del northern soul e della Motown, di Wilson Pickett e del geghegè e ha pure una straordinaria forza contagiosa. «Mica è facile cantarlo, ha le parole incastrate una dentro l'altra come dico sempre a Lorenzo». All'Ariston ritroverà in gara anche Massimo Ranieri ossia il suo «rivale» preferito ai tempi di Canzonissima: «In una Italia fondata sul dualismo come con Bartali e Coppi era inevitabile diventassimo rivali. Un tour con lui e Al Bano? Ne sento parlare, perché no?». Ora Morandi e Ranieri si ritrovano di nuovo in gara come mezzo secolo fa: «Allora ci scambiavamo le vittorie. Ora se mi dicessero che lui vince e io arrivo secondo ci metterei la firma. Ma più probabilmente io arrivo 12esimo e lui chissà».
Quando parla, Morandi è una sorta di romanzo popolare che si sfoglia pagina dopo pagina. Se in questi ultimi anni i pesi massimi della canzone d'autore si sono avvicinati al Festival di Sanremo, una parte del merito è anche sua: «Mi inginocchiai per avere Vecchioni al Sanremo che dirigevo io, ora l'atmosfera sta cambiando ma mi dispiace che per tanti anni non sia stato considerato un palcoscenico all'altezza. Credo che per artisti come Venditti o De Gregori sarebbe una bella opportunità. E comunque penso che sia meglio essere in gara che arrivarci da ospite». E se lo dice lui c'è da crederci, visto che ha attraversato la musica italiana da vincente («Come quando feci il provino a Roma con Morricone, Bacalov e Migliacci, cioè come essere al posto giusto nel momento giusto») e anche da perdente come quando fu ricoperto di fischi sul palco dei Led Zeppelin al Vigorelli il 4 luglio 1971: «Un incubo. Quando toccò a me, sentii un boato, ma non era di gioia, era un boato all'incontrario, un gigantesco invito ad andarmene».
Da quel momento Gianni Morandi entrò nel vivo di una crisi che già il Sessantotto aveva iniziato a celebrare. Il crollo di vendite. L'iscrizione consolatoria al Conservatorio. Le incertezze sul futuro. Poi la rinascita. «Ho avuto culo a ritrovare la strada dopo 10 anni di crisi, ho incontrato Mogol alla fine del suo rapporto con Battisti, abbiamo iniziato la Nazionale Cantanti, insomma sono ripartito».
Ora è un padre della patria pop al quale si chiede cosa pensa di un presidente della Repubblica donna («Le donne sono senza dubbio superiori agli uomini e, al Quirinale, una Cartabia, una Casellati o anche una Bonino potrebbero mettere d'accordo tutti») e di un possibile direttore artistico al femminile proprio a Sanremo: «Penso che Pausini o Mannoia o Elisa o Mara Maionchi non avrebbero problemi a farlo».
In sostanza, tutto passa tranne Morandi.
E, tornando al Festival di Sanremo mezzo secolo dopo la prima volta, conferma una vitalità che tanti se la scordano. «Dopotutto - dice ridendo - ho esordito in contemporanea con i Beatles, Andavo a cento all’ora è uscito poche settimane prima di Love me do». E lui è ancora qui. In pole position.
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