Santi, angeli, madonne: il sacro erotismo del buio che illumina due secoli di arte

La mostra a Palazzo Reale di Milano propone (salvo qualche lacuna e alcuni inviti fuori luogo) le opere capitali del Merisi. Con le quali il visitatore instaura un rapporto quasi carnale

Santi, angeli, madonne: il sacro erotismo del buio che illumina due secoli di arte

In generale, la mostra di Caravaggio in Palazzo Reale a Milano è l'occasione per vedere alcuni buoni (non tutti) e imperdibili quadri nelle condizioni più favorevoli, con la migliore illuminazione e con alcune utili annotazioni su tecniche e pentimenti. Almeno una di queste condizioni è pesantemente limitata dall'afflusso di pubblico concorrente che in un museo e in una chiesa è sicuramente più rarefatto. L'esperienza della visita alla Madonna dei pellegrini di Sant'Agostino a Roma, con illuminazione a moneta, è certamente più tranquilla e appagante. Anche se poter vedere il dipinto più in basso e da vicino è, per certi versi, esaltante. Come un massaggio in una sauna rispetto a una carezza nella intimità.

Vivere il rapporto ravvicinato con Caravaggio ha qualcosa di fisico, di erotico; e, anche al suo tempo, questi quadri scuri e luminosi erano probabilmente proposti in interni bui, alla luce artificiale di candele e torce. Difficile pensare che fossero esposti in una luce diurna, dispersiva e senza intimità. Caravaggio non è Piero della Francesca. Detto ciò, tutto quello che sappiamo di lui, attraverso le fonti, morbosamente incuriosite per l'originalità del personaggio, e la messe di documenti che via via riaffiorano, ci costringe a partecipare al circo caravaggesco che, da troppi anni, dopo la memorabile mostra curata nel 1951 da Roberto Longhi nello stesso Palazzo Reale di Milano, ha esibito, quando più quando meno, le opere dell'artista come fenomeni da baraccone o come prostitute. Con il pretesto di scoprire misteri, far conoscere documenti nuovi, rivelare gli esiti di indagini e radiografie, si sono fatte mostre ovunque nel mondo, e con continua incalzante frequenza, fino a trasformare Caravaggio in un'ipnotica ossessione, per incompetenti o falsi esperti, e in un idolo di massa, probabilmente frainteso.

Osserva onestamente Domenico Piraina che questa è «la terza volta in settantasette anni che Palazzo reale promuove un progetto espositivo di Caravaggio». La seconda, nel 2005, fu proposta da me in occasione delle celebrazioni del pittore calabrese Mattia Preti, studiato in relazione con il maestro e nel più ampio contesto del caravaggismo internazionale: fu la volta di «Caravaggio e l'Europa». La terza occasione comprende meno della metà delle opere del pittore, e soffre della esclusione delle tele dei grandi cicli per le chiese di Roma e per i siti siciliani e di Malta. Letteralmente, «dentro Caravaggio» significa l'esperienza che ho descritto all'inizio, e che non è soltanto tecnica, ma è anche evocativa, magica, illusoria. E quindi edonistica, popolare, gratuita, commerciale, sotto il pretesto di offrire il risultato delle analisi diagnostiche opportunamente nascoste dietro ai pannelli mobili concepiti da Pierluigi Cerri, con il duplice effetto di non contaminare l'assoluto espositivo del dipinto e il suo rapporto «erotico» con lo spettatore, e di contribuire alla conoscenza didascalica e approfondita delle tecniche e dei percorsi mentali del Caravaggio. In sostanza, «davanti all'immagine» e «dietro l'immagine», posizioni e titoli di due fortunati libri dello scrivente e di Federico Zeri.

La mostra si apre con il provocante Riposo durante la fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphilj, dove il dialogo amoroso tra San Giuseppe e l'angelo esclude la Vergine addormentata. Una formidabile provocazione erotica mascherata sotto la classicissima immagine dell'angelo come un ermafrodito ellenistico, posto al centro della composizione. Le radiografie ce lo mostrano, in una prima versione, sul margine destro. Senza pentimenti è l'incantata Maddalena penitente, che si mostra, nello spazio di un cortile romano, come un'inconsapevole modella addormentata, che il pittore non sveglia e a cui ruba il sonno, per una spregiudicata esibizione di verità. Al terzo quadro la mostra traballa, perché soltanto la reverenza per l'autorità e il magistero di Roberto Longhi tiene in piedi la finzione di credere che questa versione legnosa sia autografa, mentre è palesemente una copia rispetto all'esemplare della National Gallery di Londra, non presente in mostra. Ci si riprende con la versione capitolina della Buona ventura che, in una occasione come questa, abbastanza avara di novità, sarebbe stato utile accostare all'esemplare del Louvre, per valutarne le varianti, nella dinamica psicologica di un autore che, dopo l'angelo della Fuga in Egitto, preferisce una zingara a una statua antica. Lo stesso si può dire per il San Francesco di Hartford, stesura persuasivamente autografa di un soggetto di cui esiste una versione controversa nel Museo civico di Udine. Arriva invece, opportunamente, da lontano la bella composizione con Marta e Maria Maddalena del Museo di Detroit, con l'idea originale dello specchio convesso, tra gli oggetti ricordati nell'inventario della casa dell'artista per il pignoramento del 1605. Sorprendente, nell'arco di soli due anni dalle prime opere conosciute, il miglioramento tecnico del pittore nell'esecuzione dei panneggi, fino alla concomitante prova virtuosistica della Santa Caterina d'Alessandria della collezione Thyssen, purtroppo non venuta in mostra.

Nella sequenza cronologica di questa antologia, il secolo nuovo si apre con la scoperta chiave dell'anno della prima mostra caravaggesca di Milano, il 1951: Giuditta e Oloferne, per la collezione Costa, opera trovata da Pico Cellini e immediatamente confermata ed esibita da Roberto Longhi. Si passa al potente e drammatico Sacrificio di Isacco degli Uffizi, che sarebbe stato più opportuno lasciare nel grande museo, inevitabilmente più frequentato di Palazzo Reale. Tensione, energia, forza, in questo dipinto, esprimono le mani. Più languida, e per me con più di qualche dubbio sull'autografia, la Sacra famiglia con San Giovannino, in deposito al Metropolitan Museum di New York. Se non sull'autografia, le riserve sullo stato di conservazione dell'opera sono manifestate da Keith Christiansen, già direttore del museo, che parla di «innumerevoli cadute di colore» e di «superficie pittorica gravemente abrasa, quasi nella sua totalità». Sarebbe stato meglio lasciarla a casa. Un arrivo importante, meraviglioso, è invece quello del potente, monumentale e raffinatissimo San Giovanni Battista del Museo di Kansas City. Ci si chiede come Caravaggio, tanto veloce quanto pigro nell'esecuzione materiale, si sia impegnato in questo dipinto, con gran cura dei dettagli, nella vegetazione e nello stupendo panneggio. Come non farà nella più sintetica versione della Galleria Corsini a Roma. Notevole lo svolgimento veloce dell'albero e delle radici, che concorda con quella del rianimato, dopo il restauro, San Francesco in meditazione del Museo Ala Ponzone di Cremona. L'originalità della composizione, la declinazione dolente del volto di San Francesco e la bella densità pittorica della veste contribuiscono a fugare i dubbi, da più parte sollevati, sull'autografia, che fu respinta dallo stesso Longhi.

In questa fase matura, problematica, meditativa, si trova anche il San Girolamo penitente dell'abbazia di Montserrat, di veloce esecuzione nella sintesi delle pieghe della carne vecchia del santo, in equilibrio fra le conosciute versioni di Jacopo Bassano e i tormentati Girolami di Ribera. Nel percorso, comunque non completo, di questa crestomazia caravaggesca non era necessario convocare la controversa Incoronazione di spine, già Cecconi, ora nella collezione della Banca popolare di Vicenza. La severa condanna, come copia, di Roberto Longhi è stata rovesciata in appello grazie all'avvocato Mina Gregori che la ritiene autografa. Ma mi pare che non possa reggere al giudizio della cassazione, per la evidente povertà di esecuzione che tende a semplificare quelle carni, così intense e calde, che abbiamo visto fin qui. Basti confrontarla con la coeva e sublime Madonna dei pellegrini, forse il quadro più bello presente in mostra, proveniente dalla chiesa di Sant'Agostino a Roma.

Mancando le belle opere napoletane, salvo la Flagellazione (non ci sono la rassicurante Madonna del rosario e le inarrivabili Sette opere di misericordia del Pio Monte), siciliane e maltesi, assoluti capolavori degli anni estremi, ci restano il triste San Francesco in meditazione di Carpineto Romano (in condominio attributivo con quello della chiesa dei Cappuccini di Roma); lo sgualcito ritratto di Cavaliere di Malta di Palazzo Pitti; la potente e sintetica Salomè con la testa del Battista, tra le poche opere private certamente autografe scoperte dopo la mostra del 1951; e la triste e ammaccata Sant'Orsola, della collezione Intesa San Paolo, forse l'ultima opera di Caravaggio, carica di presagi mortali anche per le cattive condizioni che ne aumentano la drammaticità, come una consumazione fatale, una dissoluzione, un memento mori. La larva che resta è un dipinto fascinoso, ma insufficiente a rappresentare i momenti drammatici e estremi della vita di Caravaggio.

La mostra di Milano può essere utile, agevolando la visione di alcune opere molto notevoli, ma non dà gioia, e non aggiunge nulla alla conoscenza di Caravaggio. Va, nondimeno, lodata la curatrice che, negli ultimi anni, ha dedicato tanto impegno a verificare le fonti e i documenti, i contributi degli studiosi, e le interessanti risultanze delle indagini tecniche e dei restauri. Spiace che, del vasto repertorio degli studiosi, abbia dimenticato i contributi più significativi e le interpretazioni più originali, proposte da Ferdinando Bologna e da me. Non voglio rivendicare nulla, ma ricordo che, prima delle carte degli archivi di Stato, avevo escluso che Caravaggio fosse arrivato a Roma nel 1592, proponendo, sull'evidenza stilistica, il 1596.

E, con una originale interpretazione verificata sulle opere (in una monografia e in uno spettacolo teatrale visto da 300mila persone), lo straordinario transfert di Pierpaolo Pasolini, allievo all'Università di Bologna di Roberto Longhi, nei confronti della vita e delle opere di Caravaggio.

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