Sarfatti, "l'americana" che spiegò il fascismo al Nuovo Mondo

L'intellettuale ebrea amata dal Duce non seppe convincerlo a fidarsi degli Usa

Sarfatti, "l'americana" che spiegò il fascismo al Nuovo Mondo

Non si sa con esattezza quando i due si incontrarono per la prima volta. Nel libro autobiografico My Fault, ancora inedito in Italia, Margherita Sarfatti (1880-1961) raccontò di aver sentito parlare per la prima volta di Benito Mussolini nell'ottobre 1911, ma non è da escludere che i due avessero avuto l'occasione di incontrarsi di sfuggita già nell'ottobre 1910 al congresso socialista di Milano. Comunque sia, è certo che, dopo che Mussolini ebbe assunto la direzione dell'Avanti!, Margherita, che vi collaborava da tempo, si recò da lui a far visita.

Era, sempre, lei, Margherita Grassini, discendente da una famiglia ebraica veneziana, la donna elegante e affascinante che, divenuta moglie dell'avvocato socialista Cesare Sarfatti, stupiva i compagni socialisti con la sua cultura artistica e il comportamento un po' snob ben diverso da quello di un'Anna Kuliscioff e di un Filippo Turati. Mussolini, invece, era cambiato: non più il bohémien sciatto e trasandato delle prime battaglie socialiste, la barba incolta e l'atteggiamento sprezzante nei confronti dei borghesi, ma un uomo di bell'aspetto, con i baffi, curato nell'abbigliamento, lo sguardo intenso e indagatore.

Quel primo incontro segnò il destino, professionale e personale, dei due. La Sarfatti continuò a scrivere su l'Avanti!, seguì Mussolini su Il Popolo d'Italia, ne divenne amante e musa ispiratrice risvegliandone l'interesse per i temi artistici e culturali. Ma, soprattutto, fu colei che, con il volume biografico Dux, pubblicato nel '26, gettò le premesse per la creazione del «mito di Mussolini» come dell'uomo venuto dal popolo, il «figlio del fabbro» e non già il «piccolo borghese» quale egli era in realtà. Mussolini ne fu entusiasta perché, come scrisse nella prefazione, il libro lo «proporziona nel tempo, nello spazio e negli eventi, senza ipertrofie malgrado l'amicizia e la comunità del lavoro e delle idee».

Per tutta la prima metà degli anni Venti Margherita Sarfatti fu la dominatrice assoluta del mondo artistico e culturale italiano: il suo salotto milanese divenne il punto di ritrovo dell'intellettualità del tempo. Un momento importante della sua biografia fu quello della fondazione del «Gruppo del Novecento», che comprendeva sette artisti, provenienti da esperienze diverse ma uniti dal desiderio di avviare un «ritorno all'ordine» dopo l'ubriacatura avanguardistica: Mario Sironi, Achille Funi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci, Emilio Malerba, Pietro Marussig e Ubaldo Oppi. Il successo del «Gruppo del Novecento», prima, e, poi, del «Novecento Italiano», che ne fu la prosecuzione più o meno spuria, provocò un vivace dibattito sull'«arte fascista» e innescò feroci polemiche.

Il legame della Sarfatti con Mussolini il quale, pure, le aveva affidato la direzione della rivista Gerarchia cominciò ad affievolirsi o incrinarsi all'inizio degli anni Trenta non solo per il diminuito coinvolgimento sentimentale del dittatore nei confronti di Margherita ma anche per il fatto che, per un verso, lei era divenuta troppo potente e ingombrante e, per un altro verso, le polemiche artistico-politiche non gli apparivano funzionali né alla gestione del consenso né all'immagine che egli intendeva veicolare del regime. L'insofferenza di Mussolini nei confronti non solo della Sarfatti e dei suoi protetti è ben documentata da un suo sfogo del 1932 riportato da Ugo Ojetti: «A vederla in tutte queste commissioni si finisce per credere che viene nominata perché è la mia biografa E poi Novecento, Novecento. Queste orribili figure con questi manoni, questi piedoni, questi occhi fuori posto sono ridicole, fuori del buonsenso, fuori della tradizione, fuori dell'arte italiana. È ora di finirla».

La Sarfatti aveva del fascismo una visione che lo assimilava a un «nuovo ordine» cui, a suo parere, avrebbero dovuto conformarsi altri sistemi politici: in certo senso ella, si potrebbe affermare, aveva superato la fase secondo la quale il fascismo non era considerarsi «merce d'esportazione» ed era approdata, pur non parlandone esplicitamente, a quella concezione del «fascismo universale» fondato sull'idea dell'«uomo nuovo». Il viaggio che intraprese nella primavera del 1934 negli Stati Uniti, dove il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva lanciato il New Deal per contrastare gli effetti disastrosi della Grande Depressione, si inseriva forse nel disegno di propagandare il fascismo nel nuovo mondo.

A questo viaggio e al suo significato per la biografia della Sarfatti la cui popolarità e influenza erano all'epoca ormai in fase declinante tanto che aveva cessato la collaborazione a Il Popolo d'Italia e lasciato la direzione di Gerarchia, pur se certi suoi nemici, a cominciare da Ugo Ojetti, si lamentavano che Mussolini le consentisse ancora di essere «arbitra in tutto quel che tocca l'arte» Gianni Scipione Rossi ha dedicato un bel saggio, L'America di Margherita Sarfatti. L'ultima illusione (Rubbettino), che getta un fascio di luce su una vicenda poco nota ma che offre importanti spunti di riflessione.

Giunta negli Stati Uniti dopo una traversata a bordo del transatlantico Rex, la Sarfatti venne accolta come una star che, accompagnata e sponsorizzata da intellettuali come Giuseppe Prezzolini o da diplomatici come l'ambasciatore Augusto Rosso, si sforzava di spiegare agli americani e allo stesso Roosevelt, che la ricevette in visita privata, il fascismo e la nuova Italia. Al rientro in patria, si rese conto che Mussolini non voleva sentir neppure parlare degli Stati Uniti tanto che a certe sue osservazioni rispose che «in termini di cose reali», cioè per esempio di «potere militare» essi non erano affatto importanti. Nelle memorie, scritte in tarda età, la Sarfatti parlando di quell'incontro con Mussolini osservò che si era resa conto che «le parole di Hitler avevano già iniziato a influenzare il pensiero» del Duce.

Tre anni dopo quel viaggio, nel 1937, alla vigilia del suo espatrio dall'Italia per la legislazione razziale, Margherita Sarfatti pubblicò il volume L'America, ricerca della felicità con il quale, secondo Rossi, ella si illudeva «ancora di convincere Mussolini a un ripensamento della scelta filo-tedesca» anche se il suo giudizio su Roosevelt non era positivo al cento per cento perché il New Deal le appariva come una «brutta copia» del fascismo o, se si preferisce, come una sua imitazione incompiuta.

Rossi che del volume ricostruisce le vicende editoriali fino al ritiro dal commercio disposto dal Minculpop nel 1938 sostiene che esso voleva essere non soltanto «il testamento politico e culturale di Margherita Sarfatti» ma anche «un estremo messaggio in bottiglia a Mussolini» pur nella consapevolezza di essere divenuta, lei, un «oracolo azzittito». Un messaggio che, purtroppo per l'Italia, il Duce non volle ascoltare.

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