della Scala

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La galleria degli interpreti di Don Giovanni alla Scala, dal 1814 al 2011, ci può aiutare a dissipare alcuni veli che nascondono questo Don inaugurale. Non riveliamo un segreto: Don Giovanni è facilitato rispetto a tutti gli altri personaggi (tranne l’atipico Commendatore) per la sua storia, perché tutto quanto sta davanti e alle spalle del suo mito conferisce un fascino unico alla sua figura. Per non parlare della presenza, nei giorni della prima a Praga (ottobre 1787), accanto a Mozart e a Da Ponte, di Giacomo Casanova, demoniaco e predace simbolo per antonomasia. Ci informa lo studioso dapontiano Lorenzo della Chà che fra le carte di Casanova sono state ritrovate alcune varianti per la scena di Leporello, smascherato nel suo travestimento nei panni del padrone. Una cripto-collaborazione di Casanova al Don Giovanni è ipotizzabile: «del resto chi meglio di lui conosceva l’arte della seduzione?».
E sul piano vocale, quale è il timbro del seduttore? Quello di Don Giovanni è più indefinito rispetto al buffo Leporello e al più scuro Masetto. Perfino un celeberrimo tenore rossiniano, creatore del ruolo di Almaviva nel Barbiere di Siviglia, Manuel García, interpretò quel ruolo che l’Autore definisce «basso». Si trattava della prima esecuzione del Don Giovanni a New York (1826), la «prima» volta che un’opera completa di Mozart si ascoltava nel Nuovo Mondo. Quando García avvicinò l’abate Da Ponte, in America in cerca di fortuna, lo salutò cantandogli la cosiddetta champagne-aria, Fin ch’han dal vino calda la testa. Dove l’indicazione del tempo, «presto vorticoso», è quasi sempre sospinta dai direttori di scuola tedesca a velocità estrema, solo per imprimere vitalità al brano. Così, incuranti della parola italiana, ottengono di ingarbugliare il discorso musicale e far rotolare l’articolazione ritmica. L’inno alla gioia libertina diventa una filastrocca scioglilingua. Le tre arie famose del personaggio sono di una leggerezza «unica» e in tal senso debbono essere rese dall’interprete, fermo restando che non costituiscono la parte vocalmente più impegnativa del ruolo, consistendo l’impegno nella resa del «giovane cavaliere estremamente licenzioso». A questo pensò Herbert von Karajan quando nel 1951 scelse un allora semi-sconosciuto Mario Petri che si rivelò un cantante-attore affascinante e dal portamento spagnolesco.
Poi fu la volta, alla Scala, della meravigliosa pasta vocale e della splendida presenza scenica di Cesare Siepi. Per rimanere nell’ambito della seduzione filtrata attraverso la resa vocale, dobbiamo citare Nicolaj Ghiaurov (1963-66), sovrano per due decenni e più della chiave di basso, cui hanno fatto seguito, sotto la guida inflessibile di Riccardo Muti, Thomas Allen e José van Dam. La conferma di quanto abbiamo detto all’inizio sono i casi opposti degli ultimi interpreti del Don alla Scala: il tenebroso Erwin Schrott e Peter Mattei, dal quale traspare la compassata provenienza liederistica. Se ci fosse bisogno di conferma, ecco che il panorama degli interpreti del passato e del presente è prova dell’inafferrabilità del personaggio. Per Robert Carsen, regista di questo Don Giovanni inaugurale, il protagonista è un esistenzialista: «Sappiamo che per l’uomo l’unica vera grande paura - la “paura delle paure” - è quella della morte. Lui ha capito - e da qui il mio interesse per la versione incompiuta di Camus del mito di Don Giovanni - che, con l’esistenza, abbiamo ricevuto tutti un gioco senza regole e lui ne vede l’assurdità.

La sua maniera di vivere è basata su questa semplice realtà: fare tutto ciò che vuole, in un mondo che gli sembra assurdo e senza significato». Una divisa praticata non solo a teatro. Il nostro eroe è aperto a tutte le interpretazioni, tranne una: prescindere dalla sublime musica di Mozart e dal superbo libretto di Da Ponte.

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